PER RIPRENDERCI LA NOSTRA DIGNITA'

sabato 14 maggio 2011

Nanni Moretti, finalmente femminista.


Habemus papam è uno dei film più femministi che mi sia capitato di vedere. Sembrebbe difficile leggere in un’ottica femminile un film che è tutto giocato nel campo degli uomini, che ci mostra praticamente quasi solo questi bellissimi, a volte tenerissimi e a volte disperatamente perdutamente stronzi uomini di una certa età, a volte proprio vecchi. E invece è proprio di questo Moretti parla, di come è cambiata nell’immaginario di tutti, di tutte e di tutti, la figura dei due sessi, la loro relazione reciproca. La trama ormai la sanno tutti: il papa appena eletto esita tra accettare e non accettare, per tre giorni gira per la città, e poi finisce nell’unico modo in cui non potrebbe finire nella realtà, e nell’unico modo in cui potrebbe finire in questo film.
Come per l’appunto propone il titolo di un libro che non ho letto, ma che viene pubblicizzato in questi giorni sui giornali, “Cosa è rimasto del padre”, Moretti ci illustra con cura e affetto quanto poco è rimasto del padre, di tutti i padri, e anche di chi nell’immaginario collettivo era l’arcipadre, il Santo Padre, il rappresentante in terra del Padre Celeste. Che non c’è più. Non c’è proprio più. E questo i critici cinematografici lo hanno colto tutti; anche perché era difficile non coglierlo davanti alla finestra nera vuota dove il vento soffia tra due tende rosse; la prova che è possibile fotografare il nulla, l’assenza, se si è un grande artista. Moretti, che non sopravvaluta il suo pubblico, ce lo ha proprio voluto sottolineare con quella scena, non sia che lo perdessimo. Ci ha mostrato come sono veramente gli uomini di potere e il potere maschile, dopo che sono stati visti con l’ottica impietosa, dissacrante, libertaria della generazione che era giovane negli anni ‘70. Di come i loro giochi di potere sono alla fine giochi innocui, pallavolo di ragazzini che rimangono tali per sempre anche in abito talare e nella dignità della porpora. E ancora di più, naturalmente, nella dignità della giacca e cravatta, per cui il film ci parla anche che so, dei Cuccia, dei Ciampi, dei Bernheim, dei Napolitano, di quegli uomini anziani che nella vita sono stati persone serie, non utilizzatori finali di bamboline sedicenni, macchiette che la loro immaturità adolescenziale la esibiscono da soli. Questa rappresentazione degli uomini di potere non è impietosa, tutt’altro, è piena di pietà e carità. Ci spiega che questi maschi di potere non vanno odiati, esecrati e denunciati come oppressori: possono anche essere compresi, e perfino amati, se si coglie in loro con adeguato spirito materno il bambino ancora presente in loro, il bambino che ha cercato di essere buono, più buono che poteva, ha cercato di fare del suo meglio, come meglio non poteva. Ma alla fine non c’è riuscito, non poteva riuscirci. Perché non era un padre, era appunto, un bambino nell’anima. A nessuno, neanche ai maschi, si può chiedere più di quanto possano dare. E soprattutto, non si può chiedere ai maschi quello che proprio non possono più dare: la guida rassicurante del branco degli umani. Questo è facile da vedere nel film di Moretti. Meno facile è vedere perché Moretti ci dice che sono le donne la causa, e che sono le donne quelle chiamate a sanare. Ma se si guarda bene, c’è anche questo. E’ noto che Moretti è un maniaco della precisione. Ogni scena, ogni parola, ogni espressione è stata chiaramente centellinata in questo film, dove però tutto scorre come se fosse un filmino girato da un ragazzino con la sua prima videocamera. Sono le donne la causa. O meglio, è quello che gli uomini provano verso le donne, un misto di amore ma anche di violenza non sempre districabili, la ragione che li rende incapaci ad essere guide spirituali, padri. Margherita Buy sta guidando, i bambini dietro iniziano la loro piccola baruffa che finisce con la domanda della bambina al Papa: ma tu, quando eri piccolo, le bambine, le picchiavi? Risposta, seria, tremenda, pesantissima, definitiva: “Si”. Questa è l’unica ammissione di colpa, l’unica ragione della confusione di quest’uomo il cui viso, in ogni sua espressione, non è altro che bontà e desiderio di comprendere, un Michel Piccoli che ci ricorda quasi graficamente il un Papa di quando eravamo bambini, papa Giovanni. E allora? Se il papa non può fare più il Papa per via di questo peccato originale, come faremo? Eh, la soluzione c’è. Naturalmente gli uomini non la possono ammettere, loro che so no sempre i più bravi di tutti. Anche le loro donne sarebbero brave, come dice nel film lo psichiatra impersonato da Moretti. Sua moglie è brava, bravissima, sarebbe brava quanto lui se non avesse questa fissa del “deficit di accudimento”. Ecco, le donne non appaiono mai abbastanza brave soprattutto perché hanno questa fissazione, che gli uomini non capiscono. Il deficit di accudimento. Un deficit di accudimento che loro, le ragazze, continuano a voler sanare, nell’individuo e nel pianeta. E’ una ragazza che offre il telefono al vecchio papa che il giovanotto del bar ha liquidato sbrigativamente. E’ Margherita Buy che dice a Michel Piccoli che lui ha un deficit di accudimento. Ed è una cavolata ovvia, se si riferisce all’infanzia del Papa ( e con questo il nostro amico Moretti ridimensiona a dovere anche un’altra grande istituzione culturale, la psicanalisi). Ma non è più una cavolata se la si interpreta ad indicare il fatto che il maschio, specie se anziano e dell’altra generazione, non sa accudire, anche se sta imparando a farlo. E’ un deficit di accudimento attivo, un deficit di capacità di prendersi cura ciò che rende impossibile ai maschi continuare a guidare un mondo che ha bisogno non più di guida paterna, come quando l’umanità conquistava il pianeta, ma di comprensione materna e di cura, di recupero, di rigenerazione.
Ringrazio Moretti per essersi spinto delicatamente al limite massimo cui poteva spingersi senza diventare un ideologo del femminismo, cosa che sarebbe stata grottesca. E soprattutto lo ringrazio perché rende sopportabile questo primo maggio di beatificazione del nostro penultimo Papa, che altrimenti mi avrebbe fatto un pochino disperare.
di Elisabetta Addis

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