PER RIPRENDERCI LA NOSTRA DIGNITA'

mercoledì 23 marzo 2011

ARTICOLO DI TONINO PERNA SULLA SITUAZIONE MEDIORIENTALE





"Travolti da eventi politici (mondo arabo) e naturali (terremoto in Giappone) imprevedibili e sconvolgenti rischiamo di perdere ogni lucidità e capacità di comprensione.
Il terremoto dell’8.9 scala Richter ha prodotto in Giappone un disastro epocale che solo gli sprovveduti, che non conoscono la storia delle catastrofi nel mondo contemporaneo, hanno pensato si trattasse di un terremoto come altri che si sono registrati nell’ultimo decennio. Basti pensare allo tsunami che nel dicembre del 2004 ha provocato la morte di 300 mila persone nel sud-est asiatico e lasciato senza casa milioni di persone. Anche in quel caso le prime notizie parlavano di qualche centinaio di morti e di qualche migliaio di dispersi.
Ogni volta, di fronte ad una catastrofe, le autorità locali tendono all’inizio a minimizzare. Questa volta a maggiore ragione, perché sono state coinvolte alcune centrali nucleari. E questo fa la differenza rispetto a tutti gli altri terremoti precedenti e segna un salto di qualità: non ci sono centrali nucleari sicure. Si può osservare: basta metterle in siti non sismici né esposti a possibili maremoti. Ma quali sono? La mappa delle zone sismiche si allarga ogni anno e viene aggiornata di continuo, cresce come lemacchie d’inchiostro su fogli bianchi. La tragedia giapponese mette in discussione una via d’uscita dalla crisi energetica sostenuta anche da grandi scienziati ambientalisti come James Hansen (a cui dobbiamo la prima denuncia circostanziata del riscaldamento del pianeta dovuto alla crescita di CO2) e J. Loveloock il creatore della teoria di Gaia , il pianeta che vive.

La lotta per le «risorse energetiche» scarse sarà al centro di conflitti e guerre nei prossimi anni. Anche quando sta succedendo in questo momento, la guerra di una vasta coalizione contro il regime di Gheddafi è stata letta, con un po’ di superficialità, in questa direzione. Ma, facciamo un passo indietro.
Il vento di tramontana che dalla Tunisia ha portato prima in Egitto e poi in Libia ed in altri paesi arabi un inaspettato risveglio è stato ed è un movimento spontaneo. Quanto sta succedendo nel mondo arabo ci riporta, per analogia , al 1848, quando in Europa contemporaneamente scoppiarono una serie di rivolte contro le monarchie assolute ed autoritarie. Se si va a rileggere il testo di Marx «Lotte di classe in Francia» si scopre che allora – come oggi nel mondo arabo - c’era un mix di richieste di libertà «borghesi» insieme ad una spinta verso migliori condizioni di vita.
In breve, il mondo arabo è attraversato da una febbre di cambiamento che non sappiamo dove porterà, ma non possiamo accettare la posizione di chi in questi cambiamenti vede solo pericoli per il mondo occidentale: fondamentalismo islamico, emigrazione di massa, ecc. Anche nel dopo ’48 –nel XIX secolo- la reazione si prese la rivincita in molti paesi e città europee – a partire da Roma dove venne repressa nel sangue la nascente Repubblica – non per questo il vento del cambiamento, foriero di nuove libertà e diritti sociali, si fermò.

Quello che è successo e sta accadendo nel mondo arabo, a partire dal nord Africa ci manda dei messaggi precisi:
i regimi autoritari che erano i principali alleati del mondo occidentale degli interessi delle multinazionali, di Israele, sono crollati, ed altri si apprestano a crollare;
Bel Alì, Mubarak e Gheddafi erano i migliori alleati degli interessi occidentali, i leader «moderati», così venivano definiti, in quanto schierati contro i paesi arabi «radicali» (come l’Iran) ed il crescente fondamentalismo islamico antioccidentale;
Israele trema. Ha perso i suoi alleati storici e non sarà circondata più da stati-cuscinetto, ma da potenze ostili.
La Libia, come si è scritto, è un caso a sé. In Egitto e Tunisia c’era una parvenza di democrazia parlamentare, con elezioni truccate e molte restrizioni per i partiti di sinistra ed islamici. In Libia tutto il potere era nella mani della famiglia Gheddafi: per più di quaranta anni non c’è stata una Costituzione, un potere giudiziario con un minimo di autonomia, un ben che minimo spazio per media indipendenti dal potere. Anche il ruolo dell’esercito è stato molto limitato, marginale: Gheddafi preferiva le sue milizie ed i suoi mercenari. Infine, si scrive, la Libia è un paese ancora tribale, o almeno un paese dove la struttura tribale determina il potere politico.
Non si scrive che: in Libia esiste il più alto tasso di istruzione del nord Africa, con decine di migliaia di giovani che parcheggiano all’Università, che sanno che il loro destino è – come quello dei nostri giovani meridionali, di tunisini, egiziani, ecc. – la disoccupazione. Giovani che si sono ribellati, sotto la spinta dell’onda tunisina ed egiziana, ad un potere dispotico che ha mantenuto il popolo in una condizione di «assistenza pelosa», che ha congelato la cultura , l’arte, la voglia di fare della società. Il padre-padrone è rimasto sorpreso: come possono i figli ribellarsi al padre che li cura e li protegge? Non sono più figli, ma «ratti e scarafaggi» che vanno schiacciati.
E’ partita così la repressione, con una violenza sconosciuta agli altri regimi dell’area, prima a Tripoli e poi nelle altre città che erano state liberate dagli insorti. Che cosa vogliono questi rivoltosi, che tipo di società, di modello sociale e politico? Non lo sappiamo, forse non lo sanno neanche loro, ma hanno un obiettivo chiaro: cacciare il padre-padrone. E’ un odio potente, da una parte e dall’altra, come sa chi ricorda il film «Padre padrone» ambientato nel mondo arcaico pastorale della Sardegna. Gheddafi non è il classico dittatore che quando vede la mala parata se ne scappa con il tesoro, come hanno fatto Ben Alì e Mubarak, ma anche Marcos, Batista, Somoza e tanti altri. No, lui è il padre-padrone della Libia , anzi, come ha dichiarato: la famiglia Gheddafi è la Libia.
L’occidente ha assistito imbelle di fronte al precipitare della situazione. Anche il movimento per la pace è stato silente, come ha ricordato Pierluigi Sullo in un suo intervento su il manifesto, di fronte ad un massacro di civili o rivoltosi male armati che combattevano contro i «mercenari» del padre-padrone che non si fida dei suoi figli. Fino a che la Lega Araba non ha fatto il suo pressing perché il Consiglio di Sicurezza dell’Onu prendesse una posizione ed intervenisse per porre fine al massacro. Infatti, senza intervento esterno Gheddafi avrebbe riconquistato con la forza le città della Cirenaica e fatto un massacro a Bengasi, città di oltre 800.000 abitanti.
Questi i fatti. Senza intervento esterno saremmo stati complici di una strage di grandi proporzioni. Ma quale intervento? E chi deve intervenire? In primo momento, Lega Araba ed Unione Africana richiedono al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la «no fly zone» per impedire che l’aviazione di Gheddafi continui a seminare morte. Ci sono molte resistenze esplicite (Russia e Cina) e nascoste (Israele) che per diverse ragioni non vogliono l’intervento. Poi, di fronte al sicuro massacro di Bengasi , sotto la spinta di una opinione pubblica mondiale che condanna Gheddafi, il Consiglio di Sicurezza decide per la «no fly zone».

Un ruolo decisivo lo gioca la Francia di Sarkozy , un leader in calo di consensi che cerca di rifarsi sul piano della politica internazionale, ma anche un uomo con cadaveri nell’armadio: Gheddafi gli ha finanziato la campagna elettorale, e se non viene eliminato gli può distruggere la carriera politica per sempre. Sono, infatti, gli amici occidentali di Gheddafi quelli che più temono la sua sopravvivenza: potrebbe rivelare fatti inquietanti per tante istituzioni prestigiose (compresa la London School of Economics ) ed affari non proprio trasparenti di tanti uomini politici e manager di grandi imprese.
Ed ecco il casino: Sarkozy ha un problema personale da risolvere e un problema politico (la grandeur della Francia che risorge). Obama, tirato per la giacca in questa guerra, vorrebbe uscirne al più presto, ma non può lasciare la leadership a Francia ed Inghilterra, perché – glielo spiegano le 7 oil sisters – avrebbero un diritto di prelievo sul petrolio libico.
E l’Italia ? il paese che aveva più interessi nel territorio libico, primo partner commerciale della Libia, sua antica colonia, che fa? Prima guarda con apprensione, con il Berlusca che dichiara «non voglio disturbare Gheddafi», spera che ce la faccia e si possano mantenere saldi gli interessi comuni. Poi si allinea alle posizioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e si fa prendere la mano: non concede solo l’uso delle basi, invia propri aerei a combattere. Naturalmente, il presidente ex-amante di Gheddafi precisa : «I nostri aerei non sparano». Vero. Bombardano, che è un’altra cosa. Gongola La Russa, l’Armagheddon , che non sta nella pelle: finalmente può fare la sua guerra , seppure limitata, come aveva sognato fin da bambino.
Morale della favola.
Era giusto intervenire per salvare il popolo libico. La «no fly zone», se applicata nel giusto modo, poteva essere una soluzione tampone, visto il ritardo con cui si è intervenuti e l’inerzia della diplomazia internazionale (anche se con Gheddafi non so quanto avrebbe potuto ottenere!). Ma, come spesso accade, all’interno di un moto spontaneo e di una giusta istanza entrano forze che hanno altri obiettivi. La Libia sta diventando un terreno privilegiato per la spartizione della sua risorsa preziosa, il suo oro nero. Ma non si è organizzata- come nel caso dell’Irak – questa guerra per il petrolio. Non diciamo sciocchezze: con Gheddafi diverse multinazionali facevano tranquillamente affari e lui non aveva alcuna intenzione – come Chavez ed altri – di nazionalizzare il petrolio e togliere le imprese straniere dalla fase estrattiva. In più, per quanto riguarda l’Italia, Gheddafi stava bene anche alla Lega: bloccava i flussi di immigrazione e rispediva nel deserto migliaia di africani a morire (l’abbiamo dimenticato?) . Un eroe per Calderoli, Maroni e c.
Che fare ?
Chiedere che si rispetti la «no fly zone» e non si autorizzino altre missioni di guerra, come fa la Lega araba, ma anche altri paesi occidentali e non. Aspettare che il popolo libico si liberi del suo dittatore ? Certo, non possiamo farlo noi. Non siamo per la pena di morte internazionale. Nel frattempo sostenere le forze sociali e democratiche che si stanno organizzando in tutto il nord Africa. Moltiplicare gli scambi culturali, sociali e politici con tutte -dicasi tutte- le componenti sociali della rivolta popolare che ha travolto i regimi del nord-Africa. L’onda tunisina non si è esaurita. Adesso tocca al Barheim , Yemen ed altri paesi arabi affrontare l’onda del cambiamento. Questi governi autoritari non potranno sparare ed uccidere liberamente , come avrebbero fatto se Gheddafi non fosse stato fermato. In questo senso il sangue versato dal popolo libico per i suoi diritti civili e sociali è un contributo alla causa della libertà e della giustizia in tutto il Mediterraneo. E questo vale anche per Israele. L’ONU , dopo questo intervento, non potrà più usare due pesi e due o tre misure. Finora , i palestinesi sono stati a guardare , ma ci potete scommettere : presto presenteranno il conto ad Israele . E lo stesso avverrà in Algeria per porre fine ad un governo supercorrotto che , in nome della guerra ai fondamentalisti islamici, sta soffocando un grande popolo. Grandi turbolenze ci attendono. Manteniamo la lucidità per cogliere i segni del tempo che cambia.

Questi ed altri scienziati ambientalisti credevano in buona fede che l’energia nucleare potesse sostituire i combustibili fossili e portarci ad un’uscita morbida, per sostituzione, dall’uso dei combustibili fossili che stanno modificando il clima sul nostro pianeta. Non è così. La strada del «risparmio energetico» e del mutamento nel nostro modello di vita e di consumo è una strada obbligata. Se non sceglieremo autonomamente, per una presa di coscienza, di cambiare questo modello di società, ne saremo costretti dalla futura, irreversibile ascesa dei prezzi di tutti i combustibili fossili."


Tonino Perna
Economista e sociologo, è professore ordinario presso il Dipartimento di Economia, statistica, matematica e sociologia dell’Università degli Studi di Messina.
Ha scritto diversi saggi sulla dipendenza e il sottosviluppo fra cui “Mercanti imprenditori consumatori” (Angeli, 1984), “Lo sviluppo insostenibile” (Liguori, 1994), “Fair Trade” (Bollati Boringhieri, 1998). “Destra e Sinistra nell’Europa del XXI° secolo” (Altreconomia, Milano , 2006), “Dell’usura” (Rubettino, 2009).
È stato direttore del C.R.I.C. - Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione, una ONG attiva in particolare in Bosnia Erzegovina, Albania, Medio Oriente, Eritrea, America Latina. È stato inoltre presidente del Parco Nazionale dell'Aspromonte. Quella esperienza lo ha portato a pubblicare "Aspromonte. I parchi nazionali nello sviluppo locale" (Bollati Boringhieri, 2002).
Infine, è stato il primo presidente del Comitato Etico-scientifico della Banca Popolare Etica di Padova.

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