L’EUROPA “PRECARIA”. NUMERI E MOTIVI DELLA RABBIA DI UNA GENERAZIONE
di Chiara Baldi
Da settimane in Europa si respira un vento diverso. È il vento del cambiamento, quello che è partito il 13 febbraio dall’Italia con la manifestazione Se non ora quando?, continuando con quella del 9 aprile de Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta ed è approdato, infine, agli indignados spagnoli. Migliaia di giovani stanchi di non avere né un futuro né, tanto meno, un presente.
Uno dei motivi che ha scatenato la rabbia degli under 30 mediterranei è la mancanza di politiche giovanili che consentano loro di costruirsi un futuro stabile, che vada dal lavoro alla famiglia, passando dalla possibilità di comprarsi una casa e smettere di essere, una volta per tutti, ‘bamboccioni’.
Il problema della disoccupazione giovanile ha raggiunto, in Italia, cifre astronomiche: si parla del 28,5%, secondo i dati Istat elaborati per febbraio 2011. E se per Maurizio Sacconi, ministro del lavoro e delle politiche sociali, i dati di febbraio sono “un netto riverbero positivo della ripresa economica sull’occupazione”, per le migliaia di giovani che vivono la condizione di disoccupati questi dati sono solo la conferma che in Italia qualcosa non va.
In Spagna la situazione non è migliore. Dopo il boom del 2004-2008, in cui il governo socialista aveva dato il via a molte iniziative riformiste, nel 2011 la Spagna ha registrato, secondo i dati elaborati dall’Eurostat (istituto europeo di statistica), il 20,7% di disoccupazione giovanile. Invece in Olanda e Austria, ‘l’Europa che funziona’, registrano il dato più basso: solo il 4,5%. Merito, forse, delle politiche occupazionali approntate dai due Paesi mittle-europei, dove è stato sì introdotto il modello di flessibilità ma si è stati ben attenti a non perdere di vista il capitale umano delle generazioni più giovani.
I motivi di cifre spagnole e italiane così catastrofiche sono indubbiamente tanti, ma di sicuro quello che più incide è il tipo di politica occupazionale scelta da ogni Paese. La flessibilizzazione in Europa è stata introdotta già a metà degli anni Settanta, ma è dagli anni Novanta che è stata sollecitata, invitando ogni Paese a scegliere la propria politica occupazionale. E in Italia prima la sinistra, con il “pacchetto Treu”, e poi la destra, con la “legge Biagi”, hanno sostenuto un modello di mercato sempre più deregolamentato, arrivando a quello che è stato definito il modello di flex-insecurity, radicalmente antitetico rispetto a quello olandese e danese della flexsecurity.
Infatti, nel nostro Paese al modello della flessibilità è stata affiancata una lista di contratti lavorativi basati sulla durata della prestazione. Ed ecco allora che un giovane neolaureato si è trovato prima a fare sei mesi di stage gratuito (o con qualche centinaio di euro di rimborso spese), poi rinnovato di altri sei mesi e alle stesse condizioni. In un secondo momento lo stage si è trasformato in un contratto a progetto, i famosi “co.co.co” (collaborazione continuativa e coordinata) in cui l’unica certezza era la data di scadenza del contratto: quando finiva il progetto. E così, di mese in mese, di anno in anno, di progetto in progetto. Di contratti a tempo indeterminato, dopo i ‘magnifici anni ’80′, neanche a parlarne. In questo contesto, va da sé che progettarsi il futuro non sia la cosa più semplice al mondo.
“Oggi la precarietà è un fenomeno molto complesso che attraversa tutte le reti e che non riguarda soltanto i tempi di lavoro ma anche i tempi di vita”, dice Salvo Barrano, uno dei promotori della manifestazione del 9 aprile Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta. Ed è davvero così: in Italia non è possibile fare oggi dei progetti che esulino dal campo ristretto del lavoro. Non si può programmare un matrimonio, né l’acquisto di una casa, tanto meno l’arrivo di un figlio.
Ma forse qualcosa sta cambiando. Le manifestazioni pacifiche dei giorni scorsi a Puerta del Sol a Madrid, a Plaza de Catalunya a Barcellona e a Piazza di Spagna a Roma hanno dimostrato che di destra e sinistra questi giovani non ne possono più, perché nessun governo è stato in grado di soddisfare negli anni le loro attese e realizzare i loro sogni. Ora è arrivato il momento di riprendersi il presente per non rinunciare al futuro.
Vendola presidente, ma gli altri omosessuali?
Foggia – Gianfranco Meneo ha scelto l’arma più forte per raccontare. Quella che l’uomo intende meglio, che consente alla Storia di non cessare con l’evento in sé: la carta. Ha scelto di utilizzare la letteratura, la scrittura, la parola. Il suo libro si chiama “Transgender. Le sessualità disobbedienti”. Edito dalla Palomar, casa barese attenta alle istanze culturali provenienti dal mondo della scuola e dell’università, “Trangender” contiene non le chiavi definitive per schiudere le porte alla verità ma, se non altro, la mappa per giungervi di fronte. Meneo, foggiano, fa una disamina attenta ed insieme critica. Una disamina razionale con strumenti tipici da insegnante. “Della schiera dei precari”, scherza a Stato.
S – Precarietà di vita, Meneo. Non solo nel lavoro, oggi, ma anche all’interno delle relazioni sociali. Specie se, come nel caso dei transessuali, non ti identifichi con la maggioranza. Nel libro, lei ha cercato di inquadrare questa dimensione, partendo dalla sostanza stessa dell’essere relazione: ovvero, il corpo.
GM - Già. Tutto nasce da qui. E da questa mia visione del corpo inteso come contenitore dell’anima e della materia. In più, ho cercato di creare attorno una metafora forte qual è quella del viaggio. Viaggio che io compio fisicamente, partendo dalla stazione di Foggia ed approdando a Roma. Lì ho intervistato Luana Ricci, transgender leccese, una musicista. Nel testo riporto questa intervista in cui racconta tutta la sua storia. Sentirla narrare ed insieme riflettere mi ha dato grande emozione. Soprattutto, mi ha fatto capire che noi guardiamo ai transgender in virtù del ruolo sessuale che noi gli attribuiamo.
S – Cioè?
GM – Ai nostri occhi, il transessuale è colui che ha commesso un errore e intraprende un viaggio a ritroso che lo riporterà nella giustezza sessuale. A tornare uomo o a tornare donna. Ed invece, non è così. Luana, ad esempio, è la rottura di questo schema binario. Lei, diventata donna, ha una storia lesbica.
S – Ed ecco che ritorna il viaggio. In fondo ricalchi molto le immagini che l’antropologia fa di questo concetto.
GM – Assolutamente si. Ed il viaggio è fatto di tante istanze, interpretabili come le stazioni mediane. Ma partire per questo viaggio, passare per le stazioni, non significa avere bene in mente la meta finale. Si viaggia per viaggiare e per scoprire. Non è un caso che, anche da un punto di vista materiale, il mio libro si conclude in maniera ciclica ed io ritorno al punto d’inizio: la stazione di Foggia.
S - Foggia, terra di progresso o di arretratezza?
GM - Non siamo certo nella terra dell’apertura mentale. Ci sono molti piccoli centri, nella nostra Capitanata come ovunque nella Puglia, che vivono gonfi di paure sussurrate e di parole mormorate.
S – La stazione di Foggia è stata per anni un luogo simbolo dell’omosessualità foggiana…
GM – In effetti si. Vladimir Luxuria scriveva della stazione ferroviaria come del “ritrovo madre” dell’omosessuale foggiano. Poi i tempi sono cambiati. Oggi i luoghi di battuage sono diffusi e diversificati. Sono luoghi che molti conoscono e che altrettanti fanno finta di non conoscere. O, per lo meno, di non vedere.
S – Perché?
GM - Perché regna una chiusura diffidente, impera il moralismo, governa il doppio binario. Tutti sono sempre pronti con il fazzoletto d’occorrenza per commuoversi di fronte al caso di omofobia. Ma il parlare a distanza, il piangere quando un evento non ci tange è una specialità della società contemporanea. Ed è tremendamente semplice, non richiede sforzi. Senza dimenticare, poi, che a intenerirsi sono quelle stesse persone titolari di atteggiamenti opposti. Battute, barzellette, ammiccamenti, gomitate: sembrano nulla ma, agli occhi di un omosessuale o di un transessuale sono come gocce che erodono la roccia. Sfibrano le persone, annientano la resistenza fisica e mentale.
Torniamo alla questione del corpo. C’è stata, in questi anni, una sorta di mitizzazione del corpo femminile che, ovviamente ha imposto un modello di bellezza standardizzato e che, all’opposto, tende ad escludere tutto quanto è contrario a questo stesso ideale. Ha pesato?
Certo. Sono trent’anni che le televisioni commerciali propagandano un’idea del corpo che è unica e, attualmente, inscalfibile. I corpi sono mercificati, esposti come in vetrina, ostentati come un trofeo. E come trofei, non attendono che d’esser vinti. Chi li vince, anche se questo dovesse provocare uno scandalo, è il migliore. All’opposto, invece, gli scoop omosessuali o transessuali sono fonte di biasimo. Conducono alla distruzione del ruolo pubblico. I casi di Piero Marrazzo e di Silvio Sircana lo dimostrano.
S – Non è colpa anche di un sistema comunicativo drogato?
GM - Evidentemente si. L’offensiva è continua. Eppure, trovo deprecabile attaccare un corpo che ha fatto su di sé un’operazione d’investimento – non solo economica, ma che morale e psicologica – soltanto per distruggere un avversario. Magari politico. Ecco perché, come si può dedurre dal mio libro, giudico positivamente la manifestazione “Se non ora quando” dello scorso 13 di febbraio. Già per il fatto che si è iniziato un movimentismo rumoroso composto di corpi che rifiutano di essere incasellati ed imprigionati in logiche di potere.
S – La Chiesa, con Benedetto XVI, sta iniziando a prendere posizione contro l’omofobia…
GM - I rassicuranti messaggi mediatici sono ad uso e consumo degli eterosessuali. Servono a far credere che la Chiesa non escluda nessuno. Non tanto per demeriti della religione in sé che, pure, nel libro io bollo come “fardello”; ma di chi l’amministra.
S – Ma non crede che siano stati anche compiuti dei notevoli passi avanti? L’elezione di Nichi Vendola non va in questo senso?
GM - Per ogni Vendola ci sono tante persone comuni, tanti vicini di casa, tanti che non hanno la forza per reagire a determinate situazioni. Spesso si tende a portare ad esempio personaggi celebri che sono già arrivati. Tuttavia, la vita è diversa, fatta di tasselli. Piccoli drammi quotidiani che si consumano nell’indifferenza.
p.ferrante@statoquotidiano.it
PERICOLOSI COMUNISTI
Di JOE STRUMMER - Sono saliti sui tetti delle universita' e abbiamo detto che erano pericolosi comunisti, o forse pericolosi borboni.
Sono andate in centinaia di migliaia nelle piazze "se non ora quando" e abbiamo detto che quelle donne erano pericolose comuniste, o forse ambigue assiro-babilonesi.
Sono rimasti giorni sulle ciminiere delle fabbriche e abbiamo detto che erano pericolosi comunisti, o forse infidi ittiti.
Hanno protestato contro il testamento biologico-truffa e abbiamo detto che erano pericolosi comunisti, o forse, anche, inquietanti sumeri.
Hanno inveito contro le esenzioni fiscali ai beni immobili religiosi e abbiamo detto che erano pericolosi comunisti e comunque, evidentemente, pure agguerriti saraceni.
Sono scesi in piazza per difendere la costituzione ed abbiamo detto che erano pericolosi comunisti oltre che palesemente monarchici.
Sono arrivati a frotte a Lampedusa ed abbiamo detto che erano pericolosi comunisti oltre che notoriamente sciovinisti francesi da rispedire in patria.
Abbiamo detto che l'emergenza per il paese erano le intercettazioni telefoniche e loro hanno detto di no in quanto pericolosi comunisti oltre che indubbiamente muti, ergo disinteressati al problema.
Abbiamo detto che l'emergenza per il paese era la lunghezza dei processi e loro ci hanno sbeffeggiato in quanto pericolosi comunisti oltre che fraudolentemente incensurati.
Abbiamo detto che l'emergenza erano le quote latte e loro non ci hanno creduto perche' pericolosi comunisti e irrimediabilmente terroni.
Abbiamo detto che avremmo risolto il problema del precariato e loro ci hanno ignorato perche' pericolosi comunisti e pure, nel frattempo, licenziati dai call center.
Abbiamo detto che era la nipote di Mubarak e non ci hanno dato retta perche' pericolosi comunisti ed anche equivocamente egiziani.
Abbiamo raccontato a Lui della congiura dei giudici in pieno G8 e se n'è fregato in quanto pericoloso comunista oltre che indiscutibilmente negro, di chiare origini cartaginesi.
Abbiamo detto che avremmo tolto la monnezza dalle strade a Napoli in 10, poi in 5, poi in 7 poi in 13 giorni ma lei, la monnezza, pericolosamente comunista, oltre che sporca e maleodorante, è sempre tornata.
Forse abbiamo sbagliato qualcosa e comunque non ci sono piu' i comunisti di una volta. Soprattutto perche' una volta non erano in tanti.
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