PER RIPRENDERCI LA NOSTRA DIGNITA'

martedì 12 aprile 2011

12 GIUGNO 2011: REFERENDUM DAY

by salvo on 21 March 2011
In occasione del prossimo Referendum Day del 12 Giugno 2011 , ci dovremo esprimere su quattro quesiti.
Di seguito, vi presentiamo in maniera sintetica i quattro referendum abrogativi su cui saremo chiamati ad esprimerci ma prima una DOVEROSA ED IMPORTANTISSIMA PREMESSA:
  • è indispensabile ricordare che, per legge, affinché i referendum abrogativi abbiano effetto, occorre che la percentuale dei votanti raggiunga il 50% più uno degli aventi diritto al voto (il cosiddetto quorum).
  • Essendo abrogativi, se volete ad esempio dire no al nucleare, OCCORRE VOTARE SI, ci raccomandiamo, sembra incoerente ma è cosi’, si dice SI all’abolizione del decreto-legge
Il primo quesito riguarda il “legittimo impedimento”, cioè l’istituto giuridico che permette all’imputato in un processo di giustificare, in alcuni casi, la propria assenza in aula, ed è quello che ha le conseguenze politiche più rilevanti, dal momento che è stato indetto per abrogare la legge che porta il suo nome. A presentare il referendum è stato il partito dell’Italia dei Valori. Il quesito su cui saremo chiamati ad esprimerci è il seguente:
  • “Volete voi che siano abrogati l’articolo 1, commi 1, 2, 3, 5, 6 nonché l’articolo 1 della legge 7 aprile 2010 numero 51 recante “disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza?”.
Il secondo quesito, particolarmente lungo e articolato, presentato sempre dall’Italia dei Valori, punta ad abrogare la norma per la realizzazione sul territorio nazionale di impianti di produzione nucleare. E’ il cosiddetto ‘referendum sul nucleare’, tema oggi giorno particolarmente scottante, dopo quanto accaduto a seguito del terremoto in Giappone. Il quesito su cui saremo tenuti ad esprimerci, in parte schematizzato, suona più o meno così:
  • “Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, recante Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, limitatamente alle seguenti parti: art. 7, comma 1, lettera d: realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare?”.
Gli ultimi due quesiti si occupano della privatizzazione dell’acqua: uno in particolare riguarda le modalità di affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Il testo del quesito è il seguente:
  • “Volete voi che sia abrogato l’art. 23 bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto legge 25 giugno 2008 n.112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n.133, come modificato dall’art.30, comma 26 della legge 23 luglio 2009, n.99 recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia” e dall’art.15 del decreto legge 25 settembre 2009, n.135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea” convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n.166, nel testo risultante a seguito della sentenza n.325 del 2010 della Corte costituzionale?”.
Il quarto e ultimo quesito riguarda sempre la privatizzazione dell’acqua e in particolare la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. In questo caso agli elettori viene chiesta una parziale abrogazione della norma:
  • “Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?”.
Abbiamo la netta senzazione che in cabina referendaria regnerà assoluta confusione, sia per i testi veramente criptici dei quesiti (vi sfidiamo a capirli veramente in dettaglio) sia per il fatto che sono abrogativi e qui vi ricordiamo che se volete ad esempio dire no al nucleare, OCCORRE VOTARE SI
Vi invitiamo anche ad iscriversi al nostro Forum TuttoGreen Energia Nucleare e ad esprimere la vostra opinione:



12 APRILE: RASSEGNA STAMPA

Se non ora quando…Il mio tempo è adesso!

http://www.laltramolfetta.it/public/internet_news/terre%20libere%20dic2010.jpg
Vuoi lavorare? Tranquillo… arriva la legge 30 del 2003, per salvarti, per dirti che è merito suo se ti sei guadagnato il tuo bel posto di lavoro ( prima, insiste non lo avresti mai ottenuto!!!). Si la legge 30 ti parla, ti dice che questo è il lavoro del nuovo millennio. Devi essere in grado di passare da un contratto ad un altro, che importa se dura 6 o 12 mesi, che importa dei tuoi sogni e del tuo futuro, stai lavorando, stai guadagnando, puoi prendere “soldi” che prima non avresti mai preso ( è il nuovo concetto capitalista prima i guadagni, i margini, i profitti, le azioni e poi forse le persone); che importa se rimani a casa fino ai 35 anni, cercando e sperando di ritrovare i tuoi sogni…. Si perché tu, anche se gli anni passano, anche se il tuo futuro non riesci proprio a vederlo, anche se sei solo un “bamboccione” tu, i tuoi sogni non li hai persi…. una casa, una famiglia,  una vacanza spensierata o semplicemente una moto, perché da bambino sognavi di girarti il mondo in motocicletta. No, i tuoi sogni sono lì, non se ne vanno anzi ti fanno lottare per un mondo migliore. I tuoi nonni hanno lasciato ai tuoi genitori una società in cui il futuro era certo e pieno di diritti, oggi ti si consegna un mondo senza speranze. Tu sogni di  costruire una società in cui futuro e speranza saranno garantiti. Insomma eccoti qui, sei alle porte del fantastico mondo lavorativo, fin ad ora ti hanno raccontato tante storie ma tu credi sempre alle più belle, alle più spensierate. Però sei confuso, pensi, rifletti; ti accorgi che durante gli anni dell’università o della scuola superiore non ti hanno mai raccontato che stavi per attraversare una giungla. Ascolti e scopri che ti danno del “bamboccione” perché non riesci ad andar via di casa e ti chiedi se con 6-700 euro al mese si và da qualche parte… o se con 1000 euro puoi pensare di vivere… O se con 1500 euro al mese, ma con un contratto che scade il 31 dicembre si può progettare un futuro… Vorresti chiedere, vorresti dire, urlare quanto sei arrabbiato ma non puoi e allora non sai che fare, vaghi, giri e pensi, pensi pensieri che non vorresti pensare mai. Si sogni, sogni un mondo diverso, che sappia ascoltarti, che sappia accoglierti, che sappia sentire il tuo grido disperato, che sappia ascoltare la tua lacerante inquietudine interiore. Vorresti parlarne con qualcuno ma ti accorgi che in giro la situazione non cambia molto, i tuoi amici, i tuoi conoscenti e anche quelli che non conosci proprio, trovi un popolo immenso fatti di giovani sotto i 30 anni alle prese con contratti strani, dai nomi più astrusi. Si perché a te non interessa molto come si chiamino vorresti solo avere certezze non molte ma almeno una: il lavoro.  E allora sei arrabbiato col mondo, quando scopri che tutti questi contratti dai nomi più astrusi l’unica cosa che fanno e crearti una confusione bestiale o che nessuno di essi ti tutela come vorresti. Incominci a pensare al domani, al domani che non trovi, al domani che vorresti e sogni di poter avere un casa tua piena di calore, quel calore che non trovi più in una società che non dà certezze. Sogni una vita con la tua compagna, una vita al massimo come ti riproponevi quando eri piccolo, ma alla fine sono solo sogni, sogni, solo sogni. La realtà è tristemente maledetta da un futuro inesistente, da un futuro talmente incerto che per trovare quel calore devi rifugiarti nella tua cameretta con la tua ragazza trovando anche lì mille precarie soluzioni alla tua assurda situazione. Sei un precario in tutto non solo da un punto di vista economico ma anche di sentimenti, emozioni perché l’insicurezza del futuro rende precaria la stessa esistenza. L’essere precario o flessibile (come dice qualcuno) ti rende triste dentro, nel tuo IO più nascosto; ti rende insoddisfatto di te, e così scopri, guardandoti dentro, la verità. Sei rassegnato e deluso da un futuro che nessuno ti aveva descritto, che nessuno ti aveva prospettato. Sei triste, talmente triste che ti chiedi il motivo per cui sei finito in una guerra fra poveri, si poveri precari; dove la lotta a chi sta meglio è dettata da parole o da simboli incomprensibili, una guerra tra poveri che potrà protrarsi all’infinito.
Una guerra fatta di contratti che non vorresti mai accettare perché ti lacerano dentro, contratti che non ti rendono felice, perché tu, hai sempre sognato di avere un lavoro divertente: il tuo lavoro. Quello per cui hai studiato, quello che ti ha aiutato a superare momenti difficili, da piccolo pensavi che saresti stato pagato per giocare, si perché fare ciò che ti piace veramente, è un gran bel gioco; ed invece ora, ti ritrovi a fare cose che non ti interessano. Pensavi che il lavoro fosse l’inizio della tua realizzazione, l’inizio di quel sogno, ed invece è l’inizio di un incubo che sembra non finire mai, passi da un lavoro ad un altro, da un contratto ad un altro; senza mai riuscire veramente a risparmiare qualcosa, vorresti pensare di comprare una casa, o almeno una macchina, farti un viaggio, ma ti accorgi dell’impossibilità di vivere. Ciò che fai è un nuovo Lavoro Nero Legalizzato, sotto pagato per le tue aspettative, senza diritti, non sai mai cosa ti aspetta il giorno dopo, un senza futuro…….
Per tutti solo un numero, una cifra statistica, un modo corrente di esser incasellato in qualche parte di un puzzle che non ti appartiene, ma tu sei vivo, hai dei sogni, e vuoi vivere la tua vita….. e non ci stai a questa vita atipica. Allora incominci a guardarti intorno, a cercare informazioni, cerchi di sapere il più possibile, interroghi internet, discuti nei vari blog della tua situazione e ti accorgi di non essere solo, di vivere la stessa angoscia che vivono in molti. Ti ribelli al bamboccione, no, non lo sei, non è colpa tua, questa è una situazione che non hai creato tu, è il frutto di scelte sbagliate. Siamo la generazione del sistema economico flessibile, dei contratti a progetto: la generazione precaria non per scelta ma per condizione.
Così cerchi di conoscere il tuo famigerato nemico la legge 30, cerchi di capirla, di capirne il senso. Studi, comprendi, perché come ti hanno sempre insegnato “la cultura rende liberi”.
Scopri di essere un atipico, anche se già da subito pensi che più che atipico sei Tipico, si perché se è vero che la parola tipico in italiano significa “che è caratteristico di una cosa” allora vuol dire che poi alla fine non siamo molto atipici, siamo il tipico esempio della degenerazione di un sistema capitalista in crisi. Se i contratti a termine, a progetto, a chiamata sono i contratti a cui i giovani lavoratori possono aspirare, allora c’è qualcosa che non và. Una società che offre ai suoi figli solo insicurezze e nessuna possibilità di creare futuro, è una società in cui c’è qualcosa che non funziona. Spesso mi capita di sentir parlare della flessibilità del mercato economico, sinceramente io non so dove sia questa flessibilità in Italia, forse quando la cercano gli altri arriva, ma se la cerco io scappa via. La verità è che in Italia la flessibilità non esiste, esiste solo il precariato sotto pagato, e il problema non è una legge ma un sistema che non funziona. Faccio un esempio: in Germania, quando studi puoi anche lavorare ( l’università la puoi seguire anche la sera), se hai un contratto che ti scade, e il datore di lavoro non può o non vuole confermarlo, te lo deve comunicare prima dei 3 mesi dalla scadenza, se lo perdi hai diritto ad un assegno di disoccupazione, e ne trovi uno nuovo, grazie agli uffici del lavoro, senza considerare che i salari non sono da fame. Le imprese investono su di te, ti garantiscono l’aggiornamento formativo. Hai le ferie, non sei un modo per risparmiare, anzi sei una capitale su cui investire. Insomma il sistema formativo-lavorativo esiste, la flessibilità c’è. Esiste un sistema perché non ti senti solo, in Italia non so cosa c’è ma sicuramente ti senti sempre solo. Donald Woods Winnicott qualche tempo fa scriveva : “ Per la maggior parte delle persone il regalo più grande è essere trovato e usato ”. Speriamo che qualche impresa, qualche sistema economico ci trovi e finalmente ci usi, perché qui sembra che nessuno si preoccupi di trovarci, l’unica cosa che veramente ci trova è una signora di nome Precarietà… Ma io spero che un giorno mi trovi anche il signor Lavoro.
Oggi il mondo rispetto a trenta o vent’anni fa è cambiato molto, sono cambiati i modi di comunicare, basti pensare alla potenza della comunicazione mediata dal computer; grazie ad essa si può progettare un lavoro a Tokyo per una azienda che lavora e opera a Roma; puoi far ricerca confrontandoti in tempo reale con i tuoi colleghi sparsi per il mondo; si possono spendere le proprie competenze a livello mondiale, le aziende possono collaborare tra loro a livello internazionale. Insomma viviamo in un mondo che può darci molto, se siamo capaci di lottare per un sistema migliore, con più diritti! Sì, diritti, una parola che oggi non và molto di moda! Il diritto di realizzare i propri sogni. Il diritto ad un salario equo, il diritto ad una casa, il diritto di vivere la propria vita credendo nel futuro, il diritto a costruire una famiglia, il diritto di vivere e non di arrancare. Il diritto a vivere nella proprio terra, di non abbandonarla. Io non voglio migrare in chissà quale parte del mondo, perché qui l’unico lavoro che trovi è comunque precario e non ti fa vivere. Io sono nato in Puglia e qui ci vivo e ci studio, qui ci sono i miei ricordi, i miei vissuti, i miei amici, i miei amori, “qui il vento e la terra parlano di me, del mio passato, della mia famiglia”. È qui che devo rimanere. È qui che voglio costruire il mio futuro, trovare il mio sogno. È qui che con la mia compagna voglio costruire la mia particolare famiglia. È qui che voglio amarla. È qui che voglio che i miei figli nascano e crescano, “trovando nel vento e nella terra le loro origini come le ho trovate io.” È qui che voglio che cresca la mia vita. È qui che voglio insegnare ai miei figli la bellezza e l’amore smisurato per la terra, è qui che voglio insegnare loro che “ ridere è una cosa seria ”, che la vita non è mai facile, ma è sicuramente la cosa più bella che ti poteva capitare, che la flessibilità non è un problema, ma la precarietà si, è il cancro di una società. È qui che voglio, come ha fatto mio padre, insegnare loro ad ascoltare il proprio silenzio, la propria inquietudine interiore, insegnare a trovare se stessi. È qui che voglio giocare con i miei nipoti. È qui che voglio raccontarli come è cambiata nei decenni la mia terra, come i miei nonni hanno fatto con me. È qui che voglio amarli. È qui, non in un altro posto! Io non voglio andar via… Vivo in una terra che ha vissuto il dramma per decenni di veder partire i propri figli, di vederli crescere lontano, di vederli sposare e avere dei figli. Di vedere questi figli crescere, con l’amore per una terra che non hanno mai vissuto con intensità. Vivo in una terra che vede ogni anno tornare quei figli, e sente la propria angoscia, la voglia di rimanere. Vivo in una terra che vorrebbe riportare i propri figli a casa, ma non ci riesce perché non può. Vivo in una terra in cui tanti uomini e tante donne ogni giorno in silenzio lottano per migliorare la propria esistenza. Vivo in una terra che vede partire tanti ragazzi per studiare nelle tante università del mondo, e con gioia li vede tornare preparati e pronti per creare un nuovo futuro. Vivo in una terra che vede tanti giovani diventare piccoli grandi geni nei loro campi e che con orgoglio ricordano le loro origini, la loro appartenenza ad una terra stupenda e piena di vita come la Puglia. Non credo di vivere in una società di Bamboccioni, ed è ingiusto che qualcuno lo pensi, credo di vivere in una società che ha perso la voglia di ascoltare, di fermarsi, di guardarsi indietro, di fare autocritica, di andare al nocciolo delle questioni, di parlare col cuore, di suscitare emozioni, credo di vivere in una società che dà veramente poche risposte, che non vede più il suo futuro, che non riesce più a far sognare i propri figli, che non sa più orientarli. Ma noi, i Bamboccioni, questo sistema piano, piano con mille difficoltà, noi questo sistema lo vogliamo e lo dobbiamo cambiare, perché come dice Rainer Maria Rilke: “il futuro è in noi molto prima che accada.”…
o
Insomma se non ora quando? Adesso!
Il vento africano agita il testosterone dei pizzaioli
Caro Granzotto, cosa gli è preso alla sinistra? Ogni giorno una manifestazione di piazza. Cosa hanno in testa, di sollevare il Paese e, con la benedizione di Napolitano, dichiarare lo stato di emergenza e formare un governo di salute pubblica guidato da Rosy Bindi?
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La sinistra è sempre stata attratta dalla piazza e l’ha sempre favorita, caro Ludovisi. Ce l’ha nel suo codice genetico. I giacobini prima, i marxisti poi e infine i «sinceri democratici» la ritengono, infatti, il mezzo più spiccio e più esaltante per imporre le proprie idee (e i Principî e i Valori e i Diritti. Tutto con la maiuscola, ben inteso, come ama fare, appunto, la sinistra). La qual cosa, tradotta in linguaggio semplice, significa impadronirsi del potere. C’è un po’ di romanticismo in questa visione delle cose, ma anche molta ragion pratica: per via elettorale e dunque democratica la sinistra - non gli Ulivi o le Sante alleanze, la sinistra - il potere non l’ha mai agguantato. Cosa le resta, allora? Le restano la rivoluzione, il golpe, i tribunali e la piazza. Saremo anche messi male, ma di rivoluzioni o di golpe (guidati da chi, poi? Da Franceschini? Da Vendola?) proprio non ce n’è aria. Coi tribunali, ovvero le procure, sembrò gli fosse andata bene ai tempi di Mani pulite. Il pool meneghino servì loro l’Italia su un piatto d’argento, ma il sogno svanì con la discesa in campo del Cavaliere. Resta la piazza, il vecchio amore, quello che non si scorda mai. Amore e complesso, pensiero fisso: riproporre una marcia su Roma, con le bandiere rosse - oggi un po’ stinte per la verità, ma il cuore batte sempre lì - al posto delle camicie nere. Tante volte ci hanno provato. Prima che diventasse un insulso concerto, cosa era il comizio del primo maggio a San Giovanni se non una periodica marcia (con l’ausilio di treni speciali e interminabili file di pullman messi a disposizione delle federazioni del Pci e dalle centrali sindacali) su Roma?
Non so se ha l’età e dunque possa ricordare, caro Ludovisi, l’enfasi dell’Unità nel sottolineare che i partecipanti giungevano, a centinaia di migliaia, a milioni, da tutta Italia diventando «folla oceanica», aggettivo mutuato, pari pari, dalla retorica fascista. Anche i pittoreschi girotondi, le Onde e le Pantere, i popoli Viola, le marce e gli assembramenti dei «realisti e responsabili», del «ceto medio riflessivo», i «Vaffa day», i «Democrazia day» i «Se non ora, quando?» con il tredicenne ad arringare le folle, sono piazze. Non più oceaniche, questo è vero, ma tutto fa brodo, anche le piazzette, anche i quattro amici al bar di Bersani. Adesso, poi, le loro pulsioni hanno raggiunto l’acme. La Tunisia prima, l’Egitto poi, la Libia in corso d’opera, pompano a mille il loro testosterone piazzaiolo, rinnovandogli la fiducia nel potere deflagrante del «popolo», delle «masse» («le masse» è uno dei più saldi refrain della dialettica marxista) capaci di rovesciare i regimi. Hai visto mai, si dicono, che se riusciamo a infiammare con l’antiberlusconismo le piazze lo buttiamo giù, il Berlusca? E magari Carlà, in veste di democratica contessa di Castiglione bis, ci dà una mano convincendo con le sue moine Sarkozy a inviare un paio di Mirage per coventrizzare Arcore (e visto che c’è anche l’Olgettina)?


Una riflessione sulle guerre e sul loro sviluppo su scala planetaria e sulla nuova visibilità del movimento delle donne



Riprendiamo l’editoriale a firma Floriana Lipparini e Gianluca Paciucci pubblicato sul numero monografico della rivista "Guerra & Pace", dal 1993 rivista di informazione internazionale alternativa dedicato al tema "Donne e guerra".
In questo numero ci occupiamo, nella parte monografica, della “condizione femminile” così come si è presentata negli ultimi anni.
La manifestazione del 13 febbraio l’ha riportata alla luce in uno di quei momenti di emersione del rimosso che ogni tanto vengono stabiliti.
Allo slogan ufficiale “Se non ora, quando?”, le donne di Femminismo a sud e del Comitato per i diritti delle prostitute hanno risposto con un semplice avverbio, “sempre!”, a sottolineare l’ottusità delle periodiche riscoperte di ciò che c’è ed è sempre stato, e che solo la violenta miopia del mondo dell’informazione e della politica istituzionale ignora e vorrebbe impedire di vedere.
Il femminismo, come la classe operaia e il movimento studentesco, sono stati più volte spacciati per morti, e chi ne parlava veniva puntualmente sommerso di ingiurie sia da parte dei nemici storici, che assaporavano il trionfo, sia da ex amici e compagni, la cui spocchia era ed è ormai pari all’insignificanza più completa a livello culturale e politico (ma non elettorale, perché le clientele e il servilismo funzionano ancora).
E invece esistono, e sono sempre esistiti, liberi canali di comunicazione supportati dall’informazione in rete unita alla tradizionale militanza, che hanno tenuto alta la soglia di resistenza anche quando, da destra come da sinistra, partivano e partono raffiche micidiali.
Un altro soggetto era inserito nell’elenco dei dispersi: il movimento pacifista, che è effettivamente mal messo. La crisi della militanza in questo settore è andata di pari passo con la rinascita a livello collettivo di un forte (e drogato) sentimento patriottico teso a impedire qualsiasi azione e riflessione sulla politica estera, anche se siamo in guerra in Afghanistan, e fingiamo di ignorarlo, e le “missioni di pace” vengono rifinanziate, nella disattenzione più totale, con voto pressoché unanime.
La retorica del tricolore e dell’unità nazionale sta coprendo ogni possibilità di dissenso: per non lasciare alla destra razzismo, bellicismo e patriottismo, la “sinistra” è diventata razzista, guerrafondaia e iperpatriottica.
Anti-italiano è il nuovo insulto rivolto a chi si oppone: sono anti-italiani gli operai che votano contro Marchionne, chi si batte con e per le/i migranti, e ogni disertore/disertrice dal pensiero unico.
Pur appannato, però, il soggetto pacifista è riuscito a ribadire la contestazione delle menzogne del potere, anche se non più sostenuta da quella “massa critica” che per decenni ne aveva costituito la forza.
È proprio unendo la riflessione sulle guerre e il loro sviluppo su scala planetaria con quella sulla nuova visibilità del movimento delle donne che questo numero di “Guerre&Pace” è stato pensato e realizzato.
Abbiamo riflettuto sul fatto che il discorso sul “femminile” allude e apre a quello sul “maschile” e alla discussione sulla “virilità” come elemento attorno al quale si gioca molto del presente: una neovirilità, meglio, che si esercita in campi antichissimi e ipermoderni quali l’identità sessuale, l’uso intimo e pubblico dei corpi, il rapporto di tutto questo con il denaro e con la sfera politica, e infine la violenza del patriarcato e delle religioni che è ormai da troppi percepita come accettabile, nella generale regressione (backlash, contraccolpo) degli ultimi decenni.
Su corpi che mai sono stati schiavisticamente denudati ed esposti sul mercato come oggi o mai così altrettanto schiavisticamente coperti (a due passi da noi, e nelle nostre stesse città), vengono poi effettuate violenze private e politicissime, senza tregua.
La violenza della porta accanto e quella effettuata in un Cie, quella ad opera di alcuni rifugiati nella sede che fu dell’ambasciata somala a Roma e quella attuata da carabinieri in una prigione dello Stato (la donna sarebbe stata “consenziente”, nel linguaggio feroce di certi uomini in divisa) - solo per citare alcuni dei casi più recenti - rimandano a un universo maschile colpevolmente in crisi per non essersi mai interrogato sui fantasmi del proprio immaginario sessuale, fatto crescere in una pedagogia della conquista, di un corpo come di un territorio.
Ecco la connessione, banale e vera: uomini che hanno la presunzione di conquistare donne come territori, oppure si arrogano l’onere di difendere le proprie donne in un gioco penoso che produce frequentissimi femminicidi (in Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa da mariti, amanti, ex, familiari ecc.) o riattualizza lo stupro come arma in tempo di guerra e di pace.
Ecco la connessione: “Il femminile è anche simbolo della nazione, della patria, dell’appartenenza etnica, anche se la patria è in realtà una ’matria’, un volto d’uomo su un corpo femminile, chiamato a dare l’unità organica e la sicurezza della riproduzione. Il genocidio di un popolo è spesso femminilizzato: nella donna viene colpita la sua continuità.
Lo stesso si può dire per lo stupro etnico: le donne sono depositarie dell’onore e del disonore famigliare e nazionale...
” (Lea Melandri, Oltre i poteri sostitutivi. Gli stereotipi della femminilità e le donne reali, Alfabeta2, marzo 2011).
Questa connessione abbiamo indagato chiedendo a collaboratrici e a collaboratori, ad amiche e ad amici, di intervenire con articoli o per il tramite di interviste da noi raccolte.
Floriana Lipparini riflette sul nesso tra guerre, violenze e religioni, e intervista la psicoanalista Paola Zaretti: questi due testi aprono l’ampia sezione che ragiona sul rapporto tra patriarcato e femminicidio in “Occidente” (sapendo della debolezza di questo termine, ma anche della sua utilità concreta) grazie all’intervista alla docente universitaria Patrizia Romito e ai due articoli di Stefano Ciccone (associazione “Maschile Plurale”) e della sociologa Daniela Danna.
Nella terza sezione si analizzano singole aree geografiche e vengono evidenziati alcuni tentativi di resistenza organizzata delle donne (Colombia, Haiti, Bosnia Erzegovina, Afghanistan, Somalia e Repubblica Democratica del Congo) che mostrano come sia difficilissimo ma possibile, anche in situazioni estreme, agire e ricucire rapporti.
Accanto agli interventi delle donne della Organización Feminina Popular e dell’Afghan Women’s Network, vi sono quelli di Mario Boccia, Simone Sarcià e Nadia Demond, che scrivono a partire da esperienze direttamente vissute, e l’intervista di Floriana Lipparini a Kaha Mohamed Aden.
Completano la sezione gli articoli della direttora di “Marea”, Monica Lanfranco, e di Giselle Donnard il cui testo di una conferenza del 2003 è stato tratto dal trimestrale “Multitudes”.
Chiude la parte monografica una riflessione di Mirella Scriboni sull’opposizione femminista alle guerre di fine Ottocento e inizio Novecento. La foto di copertina e altre all’interno del numero sono di Mario Boccia, mentre quelle da Haiti sono di Simone Sarcià. Cogliamo l’occasione per ringraziare di cuore tutte e tutti coloro che hanno permesso di costruire questo numero della rivista. Una rete felice di amicizie antiche, o appena nate e già profonde.
E un’ultima considerazione. Il numero è spostato, rispetto all’attualità, ma forse proprio in questo scarto sta la sua forza, garantita dal semplice prestigio delle firme. Travolte, travolti come siamo da continue emergenze, rischiamo di non afferrare più quanto si muove sul medio e lungo periodo, su quella “lunga durata” che ha fatto la meritata fortuna degli storici delle Annales, e così prendiamo decisioni vitali sotto la spinta di umori momentanei.
Nostra convinzione è invece che proprio una lettura di “genere” delle vicende possa aiutarci ad andare più a fondo nelle cose, e di non essere sorpresi almeno dalla differenza costitutiva del nostro essere al mondo, ovvero quella del “maschile/femminile”, nel nomadismo e nella costruzione culturale dei sessi che è concetto cardine del sapere, per cui non si nasce donna, uomo o altro, ma lo si diventa.
A chi di noi è diventato uomo, proponiamo queste parole di Lea Melandri, dall’articolo sopra citato: “...Occorre, soprattutto, che gli uomini, anziché occuparsi delle donne, per usarle e proteggerle, comincino a deporre la maschera di neutralità e a interrogare se stessi, le loro paure, i loro desideri, la cultura prodotta da secoli di dominio maschile, riconoscendo quanta poca libertà e scelta sia stata lasciata anche a loro, nel dover indossare la corazza virile”.
Anche da qui parte la riedificazione di un pensiero militante che non sia narcisismo o riproduzione degli apparati, ma sincero investimento basato sull’autocoscienza.
A chi di noi è diventata donna proponiamo di continuare nell’impegno di sempre, magari consolidando con più robusti fili il legame tra le generazioni, che in molti si erano messi a recidere.
REFERENDUM POPOLARI ABROGATIVI DEL 12 E 13 GIUGNO 2011. Indetti 4 referendum popolari abrogativi previsti dall'art. 75 della Costituzione.
Pubblicato il: 11/04/2011

Nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale n. 77 del 4 aprile 2011, sono stati pubblicati i decreti del Presidente della Repubblica del 23 marzo 2011 con i quali sono stati indetti, per i giorni di domenica 12 e lunedì 13 giugno 2011, quattro referendum popolari abrogativi previsti dall'art. 75 della Costituzione.

Le denominazioni uffiali dei 4 referendum vengono di seugito riportate:

REFERENDUM 1 - "Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione";

REFERENDUM 2 - "Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all'adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma";

REFERENDUM 3 - "Nuove centrali per la produzione di energia nucleare. Abrogazione parziale di norme";

REFERENDUM 4 - "Abrogazione di norme della legge 7 aprile 2010, n. 51, in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri in udienza penale, quale risultante a seguito della sentenza n. 23 del 2011 della Corte Costituzionale"

150 anni di "luoghi comuni"
e vincono davvero i peggiori

Il catalogo degli appellativi che nella storia recente hanno seguito gli italiani scelti tra  venti parole proposte da un linguista. "Mafiosi, pizzettari, mammoni e qualunquisti". E, soprattutto, insuperabili nell'arte di arrangiarsi  di MASSIMO ARCANGELI

Se interpreto bene il voto dei lettori di "Repubblica", su quali stereotipi nazionali siano più appetibili (e perciò gettonabili), ben quattro delle prime sei posizioni in classifica sembrerebbero occupate dal peggio del peggio: mafiosi (15%), "pizzettari" (11%), mammoni (8%), qualunquisti (7%). Al primo posto, però, l'arte di arrangiarsi (17%); al settimo l'attività, fiorentissima e praticatissima, del gesticolare (6%); al quarto il mito, resistente malgrado il Ventennio, di quanto sia brava la gente italiana. A seguire i sempreverdi gattopardi (5%), la dolce vita e le tangenti (4%), i casanova e i mandolini (3%); in coda terroni e polentoni, dritti e fessi, pinocchi e fantozzi, pulcinella e vitelloni. Venti parole da rivivere insieme attraverso i mezzi che, più degli altri, le hanno rese immortali: la televisione e il cinema.

I RISULTATI DEL SONDAGGIO 1

Con la città di Napoli già eletta a sua maestra sovrana, prima l'Alberto Sordi trasformista e opportunista dell'Arte di arrangiarsi (1954), e quindi le vicende raccontate in Arrangiatevi (1959), imprimono il definitivo sigillo sulla capacità tutta italiana di sapersela cavare in ogni occasione, aiutandosi

alla bisogna con il movimento corporeo e la comunicazione non verbale. Contrapposto alla compostezza degli inglesi, alla rigidità tedesca, ai moderati movimenti delle braccia e delle mani dei francesi, lo smodato gesticolare italico ci ha lasciato un ineguagliabile ricordo nel dialogo muto a distanza fra Giancarlo Giannini e Mariangela Melato in Mimì metallurgico ferito nell'onore. Ma chi non ricorda, fra i tanti altri gesti raccontati dal cinema, quello antioperaio dell'ombrello  -  con annessa, sonora pernacchia  -  reso immortale nuovamente da Sordi nei Vitelloni (1953)?

Dei cinque bamboccioni che non vogliono andarsene di casa, superficiali e oziosi (Franco Interlenghi, Franco Fabrizi, Leopoldo Trieste e Riccardo Fellini gli altri), è sempre Sordi quello che incarna la vera essenza del vitellone italico. Fellini ancora al centro della scena, con La dolce vita (1960) e Casanova (1976). Rispetto a Donald Sutherland, a Rodolfo Valentino e Marcello Mastroianni, a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi  -  distratti latins lovers da spiaggia nell'omonimo episodio dei Mostri (1963)  - , nei panni del rubacuori italiano sembrano però assai più a loro agio pappagalli metropolitani e seduttori di provincia, protagonisti di un'infinità di pellicole: Maurizio Arena, Franco Fabrizi, Renato Salvatori...

Calato o reso protagonista di tanti film (fra i più recenti Il mandolino del capitano Corelli, 2001) anche il mandolino. Per non dire del mafioso (dal Padrino alla Piovra), fra i tratti più tipici della sicilianità divenuta italiana quasi per antonomasia. È accaduto più o meno lo stesso con il gattopardismo; celebre in proposito la battuta di Tancredi nel romanzo di Tomasi di Lampedusa (1958), i cui effetti si faranno sentire soprattutto dopo l'uscita del capolavoro di Luchino Visconti (1963): "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi".

Sempre l'Albertone nazionale. La mamma è stata spesso bersaglio di quei molti che, specie all'indomani dell'unità d'Italia, hanno denunciato nell'attaccamento alle gonnelle materne, o nella dipendenza dalla figura femminile, la causa principale della mancanza di spina dorsale del maschio italiano, viziato, indisciplinato e inconcludente. Una figura perfettamente incarnata da Sordi in tanti film (I vitelloni, 1953; Lo sceicco bianco, 1952; Un eroe dei nostri tempi, 1955; Lo scapolo, 1955; Il medico della mutua, 1968) nei quali l'attore appare controllato, dominato, tiranneggiato, schiacciato da madri, sorelle, zie, mogli, amanti...
Se Sordi è la personificazione dell'ozio disimpegnato e gaudente il ragionier Fantozzi è l'immagine del grigiore di una classe burocratica e impiegatizia meschina, priva di slanci, vittima degli altri (capiufficio scostanti, dirigenti sprezzanti, megadirettori annichilenti...) ma ancor più di sé stessa, incapace di sottrarsi alle angustie del trantran quotidiano. Della stessa famiglia le mezzemaniche, i colletti bianchi, i fracchia e i travet. Piccolo-borghesi che soccombono a chi ne sa più di loro, ha capito come va il mondo e l'ha cavalcato.

Chi vince e chi perde. Chi la sfanga e chi muore. Chi inganna e chi si lascia ingannare. Il confronto fra i dritti e i fessi si accende durante il primo conflitto mondiale: da una parte i "fessi" della resistenza sul Piave e sul Grappa, dall'altra i "furbi" della vittoria di Vittorio Veneto. I furbi, in quella traumatica esperienza bellica, sono criticati da molti (si sottraevano, imboscandosi, all'obbligo di servire il paese); sono però anche, allo stesso tempo, soggetti da imitare per quei soldati che, impegnati al fronte, vogliano reagire alla loro condizione di fessi. È il clima della Grande guerra (1959). Protagonista, più di Gassman, ancora una volta Sordi: "dritto" (vigliacco), muore alla fine da "fesso" (eroe). Da una parte la Padania, dall'altra il Mezzogiorno. Lo scenario è stavolta la Seconda Guerra Mondiale: lo scontro fra Nord e Sud si acuisce con i soldati meridionali che cominciano a sfottere quelli settentrionali dandogli dei polentoni. La reazione fra il 1945 e il 1950, quando si conierà terrone: sono gli anni in cui il confronto fra i due schieramenti si fa più acceso, approdando alle sale cinematografiche con numerosi prodotti.

È il 1972 quando milioni di telespettatori seguono le vicende del più famoso burattino televisivo: Andrea Balestri. Il messaggio non è più lo stesso del libro. È passato il tempo di voler redimere gli italiani, di volerli trasformare in gente operosa e di carattere. Il Pinocchio di Collodi, pur sforzandosi all'apparenza di diventare migliore, incarna l'italiano delle croniche false partenze, sussiegoso e un po' fanfarone, che non ammette fino in fondo i propri peccati e non mostra vera intenzione di crescere. Il Pinocchio di Comencini è addirittura simpatico, quasi quanto un personaggio della commedia dell'arte. Pulcinella (da Totò a Troisi) e la pizza, la parola italiana più conosciuta e riprodotta all'estero, chiudono il cerchio. Con Totò Sapore e la magica storia della pizza (2003), diretto da Maurizio Forestieri, irrompono insieme nel cinema d'animazione. Per la gioia dei più piccoli. I grandi, un po' nostalgicamente, continuano a rimpiangere Pinocchio. 

Secondo presìdio sotto i portici del collegio per il comitato modenese “Se non ora quando”

12 apr 11 - (25)
Secondo appuntamento venerdì 15 aprile alle 16e30 sotto il portico del Collegio per il presidio delle donne di “Se non ora quando”. Una chiamata per tutti coloro che condividono lo stesso messaggio: Indulgenza zero!
Se alla prima udienza del processo Ruby i banchi degli imputati sono rimasti vuoti – dicono al comitato provinciale – le piazze le vogliamo piene. E se manifestare è un lusso che non tutti possono permettersi inventiamoci una piazza virtuale, attraverso la stampa, la rete, i gadget e migliaia di adesivi (saranno distribuiti ai banchetti del presidio) da fare circolare in città, sulle macchine, sulle cartelle da lavoro, sulle borse della spesa.
Anche il comitato nazionale ha raccolto e diffuso l’appello partito da Modena pubblicandolo sul sito www.senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com
“Nessuna indulgenza per modelli maschili che umiliano il nostro paese – insistono le donne del comitato – La cultura che certi uomini politici stanno veicolando produce guasti a tutti i livelli. Nei rapporti tra i sessi, nell’ educazione dei figli, nei luoghi di lavoro e come risulta evidente, nei processi di carriera delle donne e nella rappresentanza politica.”
Si replica venerdì 22 e venerdì 29, stesso luogo e stessa ora, e per chi volesse aderire per mail e farsi portavoce della protesta può scrivere a senonoraquandomodena@gmail.com
foto del precedente presidio dell’8 aprile

Pd, in lista con La Ganga e Viale
una precaria e una volontaria

Il Pd punta sul lavoro e sui diritti e mette in cima alla sua lista due nomi di donne della società civile.La scelta dei 40 candidatialle comunali è stat approvata all'unanimità dalla direzione del partito

di DIEGO LONGHIN E SARA STRIPPOLI
Pd, in lista con La Ganga e Viale una precaria e una volontaria
UNA precaria di una cooperativa della scuola pubblica e la presidente regionale e vice nazionale di Amnesty International. Il Pd punta sul lavoro e sui diritti e mette in cima alla sua lista due nomi di donne della società civile. Nell’elenco, nonostante le polemiche, compaiono anche Giusi La Ganga, alla sua prima candidatura dopo le vicende di Tangentopoli, e Silvio Viale, il ginecologo del Sant’Anna. Ora compare in lista come indipendente, ma non potrà più iscriversi al Pd come ha preteso l’area cattolica del Pd.

La testa di lista è tutta al femminile, ma con una sorpresa rispetto alle previsioni che davano favorite Laura Onofri, organizzatrice di “Se non ora quando”, e l’assessore Ilda Curti, entrambe in lista ma in ordine alfabetico.

Apre l’elenco Cristina Palma. Ha 49 anni e lavora in una cooperativa sociale della scuola pubblica con «un contratto che potrebbe essere messo a rischio dalla riforma Gelmini». Palma, che fa l’operatrice scolastica alla elementare Fontana per la coop Ergonauti, dice di essere una potenziale vittima dei tagli imposti da Roma. «Venerdì mi hanno chiesto la disponibilità e ho accettato — dice — mi piacciono le sfide. Da quando ho 18 anni voto Pci».

Fosca Nomis ha 35 anni, oltre ad operare in Amnesty ha lavorato nella struttura nazionale di Save The Children. È un attivista per i diritti umani ed ora si occupa di relazioni internazionali per l’Expo 2015 a Milano. Una scelta nata dalla volontà di mettere al servizio di Torino l’esperienza e la tutela dei diritti, in particolare delle donne, dei giovani e dei bambini. «Intendo impegnarmi — sottolinea Nomis — per uno sviluppo innovativo e sostenibile della città che possa generare più occupazione e una migliore qualità di vita. E, soprattutto, perché credo che solo attraverso il dialogo con la società civile, sia possibile operare scelte politiche attente ai bisogni reali di cittadine e cittadini di tutte le età». Lo slogan scelto? «Non vedo l’ora di mettermi al lavoro». Nomis conosce bene il candidato del centrodestra, Michele Coppola. Erano compagni a Scienze Politiche.

La lista dei 40 candidati del Pd per la Sala Rossa è stata approvata all’unanimità dalla direzione del partito. Nell’elenco non compare il vicesindaco, Tom Dealessandri, che ha deciso di sfilarsi. Gli altri assessori che hanno dato la disponibilità ci sono, ad iniziare da Alessandro Altamura. Solo Beppe Borgogno ha preferito rinunciare «per lasciare spazio ai giovani». Soddisfatta la segretaria del Pd, Paola Bragantini: «Diciamo con orgoglio che la nostra lista accoglie al suo interno rappresentanti del mondo della cultura, dell’imprenditoria, dell’associazionismo. Abbiamo deciso di mettere in cima ai nostri obiettivi il tema del lavoro e dei diritti». E aggiunge: «C’è un giusto equilibrio tra la continuità e l’innovazione. È una lista molto competitiva. Alle due giovani donne affidiamo il compito di guidarci all’insegna dell’impegno civico e sociale».

Il più giovane è Matteo Franceschini Beghini, grafico pubblicitario, 29 anni, segretario del circolo Pd di San Salvario. Come rappresentanti del mondo della cultura e della società civile il trentenne Vincenzo Laterza, responsabile area web dell’Orchestra Sinfonica della Rai, e Marco Grilli, 35 anni, fondatore del Teatro Alfa. Due i cittadini stranieri: l’ingegnere agronomo Cristian Igescu, del Partito socialista romeno, e Zouhaira Ben AbdelKader, mediatrice interculturale.
Rimane ancora aperta la pratica della indicazione dei presidenti di circoscrizione. Oggi nuovo match tra il Pd e i partiti della coalizione, mentre ieri si è consumata la rottura con Sel che chiede la circoscrizione 3 o altri due quartieri: «Se non si troverà l’accordo — dice Monica Cerutti di Sel — potremmo anche andare divisi in circoscrizione».

Precari davanti al Comune di Massa (Foto Nizza)
Massa, 12 aprile 2011 - "IL NOSTRO tempo è adesso: la vita non aspetta". Anche la nostra città, sabato è scesa in piazza, rispondendo all’appello nazionale contro il precariato. I giovani di Massa hanno risposto e gridato a loro modo, con ironia. Dalle 17 alle 19, sotto il Comune, la protesta si è snodata attraverso giochi surreali simbolicamente vicini a una sconfortante realtà. C’è stata una “Paranormal activity: annunci di lavoro paranormali”. Del tipo: 'Cercasi biologo per catalogare muffe del frigorifero', 'Cercasi genio per riempire lampada al momento vuota'. Una rivistitazione tragicomica del gioco della sedia col precario destinato a rimanere sempre senza, il flash-mob: tutti fermi in posizione precaria, una corsa ad ostacoli tra “poca esperienza', 'pochi corsi di formazione", 'Troppa esperienza', 'Troppi corsi di formazione', fino al gran finale della lotteria del precario "Da noi — spiega Ilaria Tarabella di 'Se non ora quando' —, la situazione di precariato e disoccupazione è molto alta".

"Purtroppo non abbiamo solo i lavoratori Eaton — fa eco Nicola Del Vecchio, coordinatore Nidil-Cgil — ma anche molti giovani qualificati, costretti ad accettare qualunque impiego". Jacopo Agrimi, giovane di Sel, ribadisce: "Un’idea nuova di società parte dall’abbattimento del precariato, molti giovani che escono dall’Università fanno fatica ad integrarsi. A maggio il circolo Fabrizio De André di Sel darà vita ad una grande assemblea contro il precariato". Fabrizio Rocca, segretario provinciale Flc Cgil, parla di 250 precari Ata in provincia e 300 nelle graduatorie dei docenti. "In tre anni, nella scuola, abbiamo perso 380 posti di lavoro: più della Eaton". All’iniziativa hanno aderito Cgil, Spi Cgil, Federazione della Sinistra, Donne democratiche, Associazione 28 Aprile, Progetto Comunità Pietrasanta, Italia dei Valori, Associazione L’Incontro, delegazione operai Eaton.


 
Stefania Grassi

Torino, amministrative: presentata la lista dei candidati consiglieri Pd

12 aprile 2011 Nessun Commento
A guidare la lista democratica per le elezioni amministrative di Torino dei giorni 15 e 16 maggio saranno due donne: una precaria del mondo della scuola, Cristina Palma, dipendente di una cooperativa sociale, e Fosca Nomis, ex vicepresidente di Amnesty International Italia. Con loro ci sono altre undici donne, tra cui anche Wilma Stella, vicepresidente della Coldiretti di Torino e Paola Onofri, organizzatrice di “Se non ora quando”. Gli assessori donna uscenti presenti in lista sono Ilda Curti (Politiche di integrazione) e Marta Levi (Decentramento e Area Metropolitana). Infine, Domenica Genisio e Lucia Centillo, consiglieri, e la mediatrice interculturale Zouhaira Ben AbdelKader. Molto discussa la scelta di candidare Giuseppe La Ganga detto Giusi, ex parlamentare socialista che all’inizio degli anni Novanta ha patteggiato con la procura di Torino la sua uscita da Tangentopoli: un anno e otto mesi per finanziamento illecito ai partiti. Contro di lui “Benvenuti in Italia” e “Libertà e Giustizia” hanno lanciato una campagna per chiedere al Pd di escludere dalle liste persone con pendenze o precedenti penali. E in lista ci sarà anche un altro personaggio scomodo: Silvio Viale, esponente radicale noto per le sue battaglie sulla pillola Ru486. Correrà come indipendente nonostante la contrarietà dei cattolici, che però hanno ottenuto che Viale e i radicali non potranno più iscriversi al Pd. In lista anche Cristian Igescu, ingegnere agronomo del partito socialista rumeno. Folta la schiera di assessori comunali uscenti: Alessandro Altamura (Commercio, Turismo e Attività Produttive); Domenico Mangone (Personale, Organizzazione, Polizia Municipale), Roberto Tricarico (Ambiente e Politiche per la Casa e il Verde). Anche numerosi i consiglieri comunali uscenti: Luca Cassiani, Gioacchino Cuntrò, Stefano Gallo, Enzo Lavolta, Stefano Lo Russo, Giulio Cesare Rattazzi, Claudio Trombini. L’unico candidato sindaco donna di queste elezioni è Rosanna Becarelli, medico antropologo e direttrice sanitaria del San Giovanni Antica Sede. Si presenta con la lista “Coscienza comune”.
Ragusa: lungo discorso della segretaria nazionale Cgil

Susanna Camusso a tutto tondo spara a zero su Fini e sul governo

"In Italia per aumentare la crescita non sono necessari i tagli o i calcoli ragioneristici di Tremonti"
Due le parole d’ordine che la segretaria generale della CGIL Susanna Camusso ha lanciato da Ragusa davanti ad una platea stracolma di iscritti e simpatizzanti, rivendicando la piattaforma dello sciopero generale del prossimo 6 maggio: la riforma del fisco e il tema del lavoro inteso come processo di legalità e trasparenza.

La leader della CGIL ha le idee chiare. In Italia per aumentare la crescita non sono necessari i tagli o i calcoli ragioneristici di Tremonti. Basta tassare di poco le rendite, superiori al milione di euro, di quel 10% che in Italia detiene la ricchezza della nazione per muovere la crescita senza intaccare il redito di lavoro dipendente o le pensioni. C’è di mezzo dell’altro. La fortissima evasione fiscale e la corruzione stratificata. Due grandi malattie sociali, drammatiche e nefaste che il governo non riesce a fronteggiare anzi non se ne occupa nemmeno. La crescita non può essere, ribatte la Camusso, il modello Fiat, di cui non si conosce ancora il piano industriale essa si genera rilanciando l’occupazione e con essa la formazione e l’innovazione.

L’Italia è l’unico paese europeo che ha tagliato i fondi per la cultura e per lo sviluppo tecnico a fronte di una crisi economica che gli altri paesi affrontano in modo diverso.

Ma secondo la Camusso bisogna partire dal basso. Da quel diritto allo studio che è strettamente legato allo sviluppo di una scuola pubblica, laica e di grande qualità; ed è qui l’unico settore in cui investire. La Ministra Gelmini, invece, ci regala tagli occupazionali e la sussistenza di un precariato assurdo.

La verità, sostiene la Camusso, è che oggi si costretti dal tempo: « Il nostro tempo è oggi» gridano i giovani in cerca di prima occupazione o chi l’ha persa o vive una condizione di non lavoro, come quello che si fornisce a gratis che lavoro non è, o sottopagato o quello in nero. Oppure nelle rivendicazioni di pari dignità la donna è costretta a gridare il «Se non ora quando». Non si può rimandare la soluzione della questione saltando in avanti le soluzioni da una generazione a un’ altra.

Il futuro è invece oggi e bisogna da subito ripartire per cambiare le condizioni del Paese. In questa provincia, conclude la Camusso, vi è quella infrastrutturale che significa non solo condizioni serie per lo sviluppo ma soprattutto occupazione ed è per questo che bisogna avviare con fermezza quelle rivendicazioni che si richiamano al completamento di opere che sono fondamentali per il rilancio socio economico di questa area che oggi vive un tempo particolare come quelli degli immigrati.

E’ utile un approccio radicalmente diverso su questa questione. I migranti sono una risorsa per questo Paese, solo qualche Ministro ha voluto lanciare l’allarme immaginando esodi epici e chissà quale stravolgimenti presagendo condizioni di pericolo sociale immanente per uso elettorale.

La cultura dell’accoglienza e della solidarietà, che questo governo respinge per evitare coaguli di dissenso alla sua azione politica, è invece la linea su cui attestarsi atteso che è gente disperata che cerca pane, lavoro e libertà.

Nuove povertà, fenomeni di schiavismo e di capolarato sono stati denunciati da Mariella Maggio, segretario generale della CGIL Sicilia parlando di immigrati e immigrazione. La Sicilia vive un tempo complicato con altissimi tassi di disoccupazione, con un Piano per il Sud che non si comprende cosa sia, anche perché non se ne parla più. Eppure a Ragusa la CGIL rilancerà la vertenza infrastrutturale, quella dell’Università che devono diventare centrali nel dibattito politico sindacale.

I lavori sono stati aperti da Giovanni Avola, segretario generale della CGIL di Ragusa, che in sedici cartelle ha fatto un quadro complessivo della situazione politica e sindacale del Paese con un governo perennemente schiacciato sulle vicende giudiziarie del capo del Governo; esecutivo che elude i nodi esistenziali come occupazione, fisco,welfare state, questione giovanile.

La forbice tra Nord e Sud si apre sempre di più con la indici di disoccupazione giovanile altissimi e senza che si intravvedano soluzioni neanche proponibili da una classe politica regionale lenta e farraginosa; ma la crisi del territorio ragusano rispecchia pienamente questa tragica situazione. Senza infrastrutture,con il peso di una crisi che sfalda il mito dell’isola felice è venuto il tempo delle decisioni ed è per tale ragione che la CGIL ha aderito alla marcia lenta di giovedì 14 aprile per la Ragusa Catania e per l’aeroporto Comiso sulle quali si registra la volontà politica, in uno stucchevole gioco al rimpiattino tra governo nazionale e regionale, in un tira a molla delle responsabilità utili solo ad allungare i tempi e l’agonia di un territorio che ha necessariamente bisogno, di autostrade, aeroporto e porto come condizione necessaria per uscire dalla crisi anche e sopratutto occupazionale. Altri fronti di crisi la stabilizzazione dei 500 precari dell’Asp di Ragusa che vede la CGIL unica protagonista della vertenza di alcune questioni che si richiamano alla Rinascita di Vittoria e nel settore agricolo con le condizioni disumane cui sono costretti a vivere molti migranti di questa provincia.

Necessario allora un piano serio del lavoro, un’attenzione forte verso i percorsi formativi legati al mondo delle specializzazioni e quindi al lavoro. E’ necessario un poderoso scatto di orgoglio delle giovani generazioni che hanno il diritto di vivere la loro vita alle stesse condizioni delle generazioni passate rompendo quella logica della divisione e dello scontro che anima l’azione di questo governo.

Lo sciopero generale del 6 maggio sarà indicativo della nuova marcia che la CGIL nel suo complesso intende mettere in campo; con lo spirito giusto e con la determinazione di rimanere dalla parte del giusto e dei lavoratori ogni sfida può essere accettata e vinta.

Negli intermezzi hanno portato le loro testimonianze il segretario della Camera del Lavoro di Vittoria, Peppe Scifo sulla condizione degli immigrati nel vittoriese denunciando abusi e negazioni di elementari diritti, un extracomunitario ben integrato, un giovane studente universitario,un precario della sanità,impiegati della Mac Donal’s.

Susanna Camusso, prima dell’incontro,ha tenuto una conferenza stampa rispondendo a domande dei giornalisti su temi di politica nazionale, nel mentre è arrivata la notizia dell’accordo unitario raggiunto all’Aran per le elezioni delle RSU nel pubblico impiego e nella scuola,regionale e ovviamente provinciale sui temi di cui ampiamente si è parlato nel corso del’assemblea pubblica.




gruppo di compagni di liceo, mi dilettavo di mondo giovanile alla radio. Dopo l'università tra
Milano e la Francia e un master in Scienze Internazionali, sono capitata a Libero che aveva un anno di vita e cercava giovani un po' pazzi che volessero diventare giornalisti veri. Era il periodo del G8 di Genova, delle
Torri Gemelle, della morte di Montanelli: tantissimo lavoro, ma senza fatica perché quando c'è la passione c'è tutto. Volevo fare l'inviata di Esteri, ma a Roma ho scoperto la cronaca cittadina, poi, soprattutto, la politica.
Sul blog di Libero-news parlo delle donne di oggi, senza filtri.
» 12/04/2011 alle 12.37

Parola di donna per sconfiggere il pregiudizio

Parola di donna per sconfiggere il pregiudizio



Abito, abnegazione, aborto, ambiente, amore, autocoscienza, autostima. Bambine, bellezza, bioetica e poi casa, conflitto, contraccezione, convivenza, corpo, cura, emancipazione, erotismo, infibulazione. Invidia, Islam, lavoro, mamma, padre, parto, potere, quote, sapere, sentimento e da ultimo vita, welfare, zitella. Sono solo alcune delle cento parole che hanno cambiato il mondo, scrive Ritanna Armeni, autrice di un libro intitolato appunto "Parola di donna" (Ponte delle Grazie editore, 335 pp. Euro 16,80). Un libro corale, perché Armeni ha riunito, con la sua idea, cento protagoniste italiane del giornalismo, della politica, del costume, dell'arte, della sociologia contemporanei. Cento voci per raccontare il cambiamento provocato e portato dalle donne attraverso la testimonianza delle parole, ma anche dell'azione, che si è risvegliata nel nostro Paese solo negli ultimi mesi, con la spinta dei fatti di cronaca, delle inchieste giudiziarie, del caso Ruby. Eppure, "Parola di donna" non è un libro a senso unico, non nasce per dividere, ma per unire il mondo femminile. Non c'è la parola berlusconismo tra le cento analizzate, non giudica e racconta l'universo femminile in modo trasversale.
Lunedì, alla libreria Arion di Roma, si è parlato di questo testo con l'autrice e con Isabella Rauti, consigliera regionale esperta di Pari Opportunità, non certo una donna di sinistra, eppure così vicina alle tematiche femminili e non necessariamente femministe, che animano il dibattito politico e sociale. Rauti, oltretutto, ha il merito di esserne sempre stata portatrice e divulgatrice in tutta la sua attività: prima come capo Dipartimento al ministero delle Pari Opportunità, oggi in Consiglio regionale, senza seguire la scia dei movimenti rinati attorno all'8 marzo, o al 13 febbraio, in apparenza per le donne, in realtà anche e soprattutto per un'ideologia politica. Due donne con radici e storie così diverse, Ritanna Armeni e Isabella Rauti, però così vicine nell'essere fini conoscitrici di quel mondo che sta cambiando proprio grazie all'impegno e alla tenacia delle ragazze. Una, Ritanna, è andata in piazza per la dignità femminile, insieme a tante altre amiche ed esponenti del comitato "Se non ora quando". L'altra, Isabella, non ha partecipato alla sfilata dell'orgoglio femminile, il 13 febbraio, riconoscendo e rifiutando così la strumentalizzazione di una parte politica tutta anti-berlusconiana. Non per questo, ovviamente, l'esponente del PdL ritiene che la scorciatoia, l'esibire il proprio corpo o il vendersi per uno strapuntino in tv sia giustificabile. <Assolutamente no. Deve prevalere sempre e comunque il merito>. Rauti ha scritto un suo capitolo per il libro della Armeni. Ha sviscerato il termine "pregiudizio". <Un giudizio preventivo: non coincide con lo stereotipo, ma gli è molto vicino>. <Nelle pagine di Ritanna>, ha detto, <si percepiscono le voci di cento donne, appunto, che fanno capire come gli stereotipi abbiano rappresentato e rappresentano ancora oggi costruzioni mentali per comprendere la realtà>. Isabella Rauti conosce il pregiudizio perché ne è stata vittima. Lo racconta lei stessa nel libro corale sulle parole delle donne. Era il 1972 e suo padre, Pino Rauti, fondatore e poi segretario dell'Msi, viene arrestato con l'accusa infamante di essere legato alla strage di piazza Fontana. Lei aveva dieci anni. Una bambina come tante. E quel pomeriggio terribile era con le amichette più strette di scuola: decidono di andare a giocare a casa di una di loro, vicino a via Trionfale. Ma quando la madre dell'amichetta è sulla soglia fa entrare solo le altre tre: <Tu no>, le dice, <sei la figlia di un fascista>. E chiude la porta. Ma non è finita. Prima era "figlia di", poi "moglie di". Magari prima che suo marito, Gianni Alemanno, diventasse sindaco, perché il pregiudizio, chissà come mai, di fronte al potere ha un certo timore e diventa ipocrisia, forse è perfino peggio. Non distingue più il merito (o il demerito) della persona, ma pensa solo alla convenienza. E spesso le donne sono vittime anche di questi meccanismi: pregiudizio all'incontrario. Non mi piaci, però mi servi. Sei moglie o figlia di uno che conta, quindi ti devo considerare per forza. Sempre troppo pochi, purtroppo, guardano al valore della donna in sé.
Naturalmente, sia Ritanna Armeni che Isabella Rauti sono modelli femminili vincenti. Hanno superato il pregiudizio lavorando sodo, ognuna nel suo settore, ognuna con la propria idea politica. A moderare l'incontro, nella libreria del Palazzo delle Esposizioni, c'era Marcello Sorgi, editorialista della Stampa. In sala, anche molti uomini a sentire le parole delle donne.