Orvieto: in trecento per dire “se non ora, quando?”
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 07:41
Corriere dell’Umbria, 15 febbraio 2011
ORVIETO – Solo poche “radica chic” per il ministro Gelmini. “Tante, tantissime, oltre ogni previsione“ per gli organizzatori. Ad Orvieto, le donne (e gli uomini) scese in piazza domenica pomeriggio al grido di “Se non ora, quando?” sono state quasi trecento. Tra queste: studentesse, operaie, pensionate, impiegate del pubblico e del privato, professioniste. Lo hanno fatto per dire basta all’indecorosa rappresentazione delle donne da parte dei media e della pubblicità, per chiedere un racconto più giusto, dignitoso e vero di quello che sono e che agiscono le donne italiane.
Le donne non si fermano più
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:13
di Annalisa Boselli, Corriere Romagna, 15 febbraio 2011
RIMINI – Una copertina del Financial Times , oltre che di molti quotidiani italiani, se la sono guadagnata, abbondantemente. A Rimini sono scese in Piazza Cavour circa quattromila persone, un numero che non raggiungeva più da anni e che ha sorpreso persino le organizzatrici.
Dalla parte delle nostre figlie
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:21
di Erminia Della Frattina, Il fatto quotidiano, 15 febbraio 2011
Caro direttore,
vorrei raccontarti la mia giornata di ieri. Era domenica, e c’era qualche goccia di pioggia. Ho messo le mantelline ai miei bambini e li ho portati in Piazza dei Signori a Padova dove c’era la manifestazione delle donne. Quanta gente, quante famiglie, la piazza era troppo piccola per contenerci tutti. I poliziotti guardavano seduti in macchina, hanno capito subito che era una festa di famiglie, di gente normale, uomini, donne e bambini, non poteva succedere niente di pericoloso o di brutto. Camminando ho visto un passeggino che reggeva un cartello: “Presidente del consiglio cercasi, astenersi puttanieri”, e mi ha fatto sorridere. Più in là un gruppo di signori con la tuba in testa e una grande scritta: “Sono un uomo e anche io dico basta”. Tanti per l’occasione si erano fatti fare delle magliette con la foto di Mubarak e quella di Berlusconi appaiate vicine, e sotto la scritta: “Lui è più serio di te, dimettiti”. Penso all’Egitto, e a quelli in piazza che gridavano: Mubarak chiudi la porta, spegni la luce. Propongo a mio marito di farci fare anche noi delle magliette con scritto: Berlusconi spegni la luce. A lui l’idea piace, e mentre camminiamo parte la gara a chi si inventa lo slogan più carino. Incontriamo un gruppetto di mamme-sandwich con appesi al collo dei grandi cartelli, davanti la foto della figlia (o nipote) e dietro la scritta: grazie mamma, lo so che oggi sei qui per me. Mio marito mi abbraccia, c’è un colore speciale stasera e davvero, le foto possono testimoniarlo, il cielo ha uno strano riflesso rosa. Sul palco tante donne di vario genere, dalla femminista (il pericolo Simone De Beauvoir è dietro l’angolo) che legge poesie all’insegnante, all’attrice, alla precaria. Poi sale sul palco una ragazzina, e urla nel microfono piena di emozione: “Ho 18 anni e sono una studentessa”. Parte un applauso come se avesse detto chissà cosa. Ma tutte ci capiamo: siamo qui per loro, ma temevamo di essere tutte non proprio giovanissime. E penso: se la rivoluzione partisse dalle donne, come sarebbe bello…!. In fondo, anche Tangentopoli è partita da una storia di corna e una denuncia fatta da una signora. Le ragazze giovani ci sono, e danno un senso di futuro che commuove. Guardo mia figlia di sei anni che si sta mangiando un gelato. Siamo qui per te amore mio.
Internet, la festa continua. Da Zurigo a Londra: «Forza, avanti così!»
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:27
di Giuseppe Rizzo, l’Unità, 15 febbraio 2011
Gli italiani in ogni parte del mondo continuano a parlare e a parlarsi sulla manifestazione di domenica. In piazza anche loro ovunque si trovassero.«Finalmente si è visto che c’è un’Italia migliore».
Olivia Guaraldo: «L’ultima mobilitazione? un “nuovo” femminismo»
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:32
di Castalda Musacchio, Liberazione, 15 febbraio 2011
«Questo movimento? Sconfigge e sconfessa un nuovo modello politico-culturale che ha tentato di colonizzare il “femminile” togliendo a questo persino i suoi lati “pericolosi”, complessi, problematici per renderlo innocuo. Le donne in piazza hanno dimostrato di non voler più essere identificate come “pacchi vuoti”». Oliviera Guaraldo, filosofa e scrittrice, nell’ultima raccolta di saggi da poco uscita in libreria, dal titolo persino premonitore – “Filosofia di Berlusconi. Oscenità, nichilismo e fallocrazia nell’Italia contemporanea” (Culture), a cura di Carlo Chiurco, Ombre corte editore – fornisce una riflessione ad ampio spettro sulla nuova questione femminile sollevata negli ultimi anni e stigmatizzata dai più recenti fatti di cronaca. «E’ la riscossa contro un modello che, sì guarda alla femminilità, ma ad una femminilità muta, che non parla, che si adegua anzi anèla ad uno scambio tra sesso e potere – che c’è sempre stato – senza avere contropartite, senza ambizioni, se non quelle di diventare un puro oggetto dello sguardo maschile, in cui l’”osceno” inteso nel senso etimologico del termine, vale a dire tutto quel che è fuori dalla scena, diventa, invece, la scena».
Migliaia di donne sono scese in piazza. Si tratta, come qualcuno ha detto, di un “remake” da anni ’70 o c’è qualcosa di nuovo in questo movimento?
Sono convinta che ci sia assolutamente qualcosa di nuovo. Qualcosa che in questi anni si è sedimentato fino ad esplodere. Anche le polemiche che si sono sollevate a destra come a sinistra sul senso stesso di questa mobilitazione, direi, sono state tutte smentite, messe a tacere dalla grande partecipazione.
Nell’ultima raccolta di saggi, appena uscita in edicola, dal titolo “Filosofia di Berlusconi”, lei si èoccupata proprio di sesso e potere analizzando il ruolo che le donne sono state chiamate ad indossare (se così si può dire, ndr) in questi anni. Quali sono le sue conclusioni ed in che modo questo movimento è “nuovo”?
Nel mio saggio ho cercato di tracciare quelli che, secondo me, sono i contorni di quella che chiamo “politica del sesso” messa in atto, naturalmente, non solo da questo Governo anche se è con questo che in un certo senso si “svela”. Ed è così che si scopre come questa abbia assunto una forma netta, definita, come una specie di onda lunga visibile che si è giocata per anni sul corpo delle donne e che, con quel che è accaduto, ci consente di guardare, finalmente, in una specie di cristallo puro, quali sono le vere dinamiche innescate da quello scambio tra sesso e potere, che c’è sempre stato, ma che, oggi, ha assunto un ruolo diverso.
In che senso “diverso”?
Nel saggio mi occupo soprattutto del rapporto fra i media, il sesso ed il potere. Prendo spunto dai film pseudo erotici degli anni ’70 fino ad arrivare a trasmissioni come “Non è la Rai” per analizzare il ruolo che le donne hanno rivestito in questi anni. Ed è come se la liberazione della donna andasse pian piano prima volgarizzandosi quasi in una visione “pop” di massa (appunto in film come quelli dei primi anni ’70) per attraversare una svolta fondamentale, come in trasmissioni come “Non è la Rai”, dove le donne, messe letteralmente a nudo, non svolgono più alcuna funzione, fino ad arrivare alle veline di “Striscia la notizia” dove, addirittura, è lo sguardo maschile che plasma persino la fisicità stessa della donna che, a sua volta, si lascia plasmare senza accennare ad una benché minima di ribellione.
Vuole dire che, nel corso del tempo, si è modificato persino un modello culturale?
Voglio dire che si è finito per identificare il “femminile” con un soggetto totalmente appiattito allo sguardo maschile. Oggi si guarda sempre al femminile, ovvio, come del resto è sempre stato, ma questo “femminile” è muto, non parla. Addirittura, di fronte ad un gioco di scambio tra sesso e potere, come quello che ci racconta la cronaca di questi giorni, non ha neppure ambizioni. E’ come se, in corso, ci fosse una specie di colonizzazione del femminile che toglie a questo persino i suoi lati più problematici, complessi, “pericolosi” per renderlo semplicemente innocuo. Ed in questo senso penso che le ultime mobilitazioni stanno tentando di sconfiggere e sconfessare proprio tutto questo. Per questo le ritengo “nuove”.
Inferno rosa per il Papi delle veline
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:34
di Annalisa Terranova, Il secolo d’Italia, 15 febbraio 2011
Silvio Berlusconi non l’ha preso bene quel fiume di donne che, tumultuando tra i vicoli di duecentotrenta città italiane, ha destrutturato per sempre la sua immagine di potente seduttore, di leader carismatico al cui fascisno le signore non resistono. E Berlusconi risponde da anziano signore offeso: una piazza faziosa, dice. Una piazza «di una sinistra che cavalca qualsiasi mezzo per abbattermi». Ma la piazza lo ha turbato, dicono ambienti a lui più vicini, più di quanto sia disposto a far vedere. Il fiume non si lascia arginare da commenti infelici come quello di Mariastella Gelmini, che usa l’aggettivo radical chic (sic!) per censurare la folla di femmine arrabbiate con il suo capo. E dall’uso di questa espressione si capisce già tutto: come spesso accade, la politica fa fatica a sintonizzarsi con il fluttuare dei fenomeni sociali, sente il bisogno insopprimibile di inserirli in uno schema rassicurante: le buone, le cattive; le puritane, le libertarie: la destra, la sinistra. Ciò che è accaduto, invece, è al di là di tutto ciò e ci sembra che l’interprete migliore della giornata del 13 febbraio sia stata la giovane scrittrice Silvia Avallone: «Il rapporto Censis del 2007 – ha scritto ieri sul Corriere – ci aveva definiti mucillagine sociale; ci avevano descritti fino all’altro ieri come una società sfibrata, disabituata a riti collettivi. Eppure quel che vedo adesso dimostra il contrario. Mi trovo al centro di una marea di famiglie, bambini, coppie che si tengono per mano e sento la misura larga di questo evento, l’emozione di vivere finalmente qualcosa che non ho mai vissuto prima. Sventola solo qualche tricolore, nessun’altra bandiera. Siamo tutte persone normali, nella nostra nuda normalità». Proprio nel suo romanzo Acciaio Silvia Avallone ci presenta il personaggio di Anna, un’adolescente poco convinta sia dalla madre operaia e militante di Rifondazione comunista sia dal fratello che lavora nelle acciaierie ma insegue il modello irraggiungibile dell’opulenza (il popolo dei suv e dei rolex che adora Berlusconi e le sue ville con finti vulcani). Anna invece ha una curiosità che la conduce altrove, una forza che la costringe a scardinare logiche che non la rappresentano. La nuova piazza delle donne è un po’ come Anna: né femminista né antifemminista, né di destra né di sinistra, non è una piazza partitica, non è una piazza d’opposizione, non è solo contro ma è anche per, è la sostanza fisica che dà forma a un’idea diversa d’Italia, non rassegnata ai riti del passato, non appiattita su slogan che fanno il gioco di questo o di quell’altro leader, una piazza che non vuole bandiere perché non servono, una piazza in cui i volti noti dei politici diventano anonimi, servono solo le persone, persone che manifestano, appunto, la loro “nuda normalità”, non più figuranti di una politica ormai infeconda, ma cittadini che si riprendono il diritto di parola. Sono state le donne le artefici di questa straordinaria mobilitazione ma non sono state le uniche protagoniste. È questo il grande, formidabile segnale che viene dall’urlo collettivo: «Adesso», un urlo arrivato persino sui media cinesi. Perché adesso c’è la percezione del passaggio da un’epoca a un’altra, perché adesso è il momento di ricostruire e non solo di inveire, è il momento della coesione oltre le artificiose divisioni. La piazza delle donne l’ha saputo fare meglio e prima di una classe politica abituata ormai solo ad annusare i sondaggi: nella piazza le suore vanno a braccetto con le prostitute, unite non da un’ideologia, non dalle parole d’ordine del femminismo, ma dall’identica dignità di persone. Il femminismo aveva lasciato un vuoto non solo ideologico ma anche fisico, un vuoto che ha fatto ritenere lecita un’etica pubblica auto-normata e santificata dal voto popolare, un vuoto che si era creduto di poter riempire in modo ingannevole con la retorica delle quote rosa. Ora questo espediente semplificatorio, minimizzante, articolato su un linguaggio “di genere” avulso dai bisogni reali è saltato. È saltato per il Rubygate ma poteva saltare in qualunque altro momento. È saltato perché non era la risposta giusta e perché arriva sempre il momento in cui l’elettore, se viene preso in giro troppo a lungo, si trasforma in cittadino attivo e trova il canale per dirlo. Il canale lo hanno trovato le donne e non poteva essere altrimenti: lo hanno trovato loro perché sono la parte più creativa e feconda e commossa dell’umanità. Quelle che sollevano lo sguardo a sanno abbracciare con quello sguardo anche chi continua a tenere gli occhi bassi. C’era bisogno che l’Italia trovasse un racconto di sé oltre la volgarità e l’estetica degli stereotipi del berlusconismo e anche oltre il linguaggio involuto e spento della sinistra. Le donne sono riuscite nell’impresa. Un’impresa talmente grande che nemmeno se l’aspettavano. Ora il comitato “Se non ora quando” ha annunciato di costituirsi come comitato permanente con l’obiettivo di valorizzare le «energie straordinarie» che si sono espresse domenica oltre gli steccati e le divisioni imposte dai pregiudizi del secolo scorso e fuori, rigorosamente fuori, dagli apparati di partito. Intanto si godono un primo, enorme risultato conseguito: nessuno, dopo quello che è successo, può più considerare le donne come un elemento decorativo né nelle cene del premier, né nelle liste elettorali, né nelle trasmissioni televisive, né sui posti di lavoro. E dunque congratulazioni a tutte noi.
Il Pdl con la fobia della piazza
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:38
di Marco Bertoncini, Italia Oggi, 15 febbraio 2011
La conclusione concreta, sul piano politico l’ha tratta Massimo Cacciari in un’intervista data a Il Mattino: «Non sarà con queste manifestazioni che si manda a casa Silvio Berlusconi». Frase cristallina, insolita per un filosofo la cui scrittura fa apparire semplici la Fenomenologia dello Spirito, di Hegel, o Essere e tempo, di Heidegger.
Ben difficilmente la piazza riesce, in Italia, a determinare scossoni politici, anche se non restò senza esito la protesta sindacale nell’autunno del ’94 contro la riforma pensionistica: Umberto Bossi si spaventò e affrettò il ribaltone, cui da parecchio tempo pensava.
Sì: le oltre duecento piazze riempite domenica non porteranno alle dimissioni del presidente del consiglio. Questo si sapeva già. Tuttavia la reazione del centro-destra è stata sbagliata. Minimizzare è vacuo, perché va detto che le manifestazioni hanno avuto un esito felice: la gente si è mossa. La mobilitazione ha reso: senza avanzare cifre, è innegabile che i pienoni si siano registrati. La base ha risposto. È stato quindi corretto il Giornale quando ha parlato di «successo spettacolare». Invece, la ministra Michela Vittoria Brambilla ha avuto la spudoratezza di scrivere sul Corriere: «Ieri, alcune donne hanno manifestato nelle piazze». La sua collega Mariastella Gelmini aveva parlato di «poche radical chic», correggendosi poi, intervistata da la Repubblica, nel senso di aver voluto così indicare le organizzatrici. Non erano né «poche» né «alcune», le donne presenti. Il ridimensionamento operato da Il Tempo è stato diverso. Il quotidiano romano ha puntato sul fatto che un milione di persone, rispetto ai quarantasette di elettori, è sempre una minoranza. Il che è in sé vero, però l’affermazione cozza contro due realtà. La prima è che la mobilitazione ha recato quel che ogni manifestazione vuol produrre: la risposta da parte dei propri seguaci, pronti a muoversi, a gridare, a far cortei, ad applaudire, a protestare. Il centro-sinistra, perfino con la collaborazione di alcune deputate di Fli, c’è riuscito.
La seconda realtà è che pure il centro-destra è goloso di manifestazioni. Non più tardi di venerdì scorso, Daniela Santanché ne aveva organizzata una a Milano, davanti al palazzo di giustizia: presenti, meno di duecento persone, che saranno sempre duecento attivisti disponibili a sorreggere cartelli in una fredda mattina di un giorno lavorativo, ma insomma non possono costituire un successo di partecipanti. Sabato, anche Giuliano Ferrara aveva realizzato una manifestazione antisinistra, riuscitissima a giudizio unanime: ma, contando pure coloro che non riuscivano a entrare nel cinema teatro milanese, eravamo sotto le tremila persone. Inoltre, da settimane il Cav vorrebbe una grande piazza tutta per lui. Quand’anche ottenesse alcune centinaia di migliaia di partecipanti, sarebbe sempre un’adunata di minoranza, per riprendere il titolo del quotidiano della capitale.
Insomma: si potrà polemizzare sugli scopi delle donne in piazza domenica scorsa, ma non si può certo, almeno sul piano meramente tecnico della riuscita, sollevare riserve. Gli organizzatori sono riusciti ad allestire proteste perfino a New York, a Tokyo, a Toronto. Quand’anche all’estero avessero partecipato poche donne, è stata un’idea geniale; e c’è da chiedersi se «promotori della libertà» e simili agit-prop del Pdl sarebbero capaci di fare altrettanto.
La Mussolini: “Anche io dico basta”
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:43
di Annamaria Gravino, Il Secolo d’Italia, 15 febbraio 2011
Vogliamo dire che erano tutte di sinistra, che erano poche? Non si può dire, non lo possiamo dire e credo che chi lo dice faccia un errore. Alessandra Mussolini, all’indomani delle grandi manifestazioni delle donne che si sono svolte in tutt’Italia e in numerose piazze del mondo, chiarisce che lei non ci sta a sottovalutare quelle proteste. E, con lo stesso impeto, sottolinea anche che non ci sta nemmeno a farsi rappresentare dalla lettera aperta di Nicole Minetti, quella in cui la consigliera regionale invitava le donne a usare la bellezza come potere, un po’ come facevano Biancaneve, «che viveva con sette uomini», e Puffetta, che era «l’unica donna del villaggio». «Quella lettera racconta la Mussolini l’ho letta tutta, perché poi mi sono detta che non voglio avere pregiudizi. Ma non l’ho capita, sarà un mio limite, che devo fare. Ho capito solo che quella poveraccia di Biancaneve…. ma guarda tu se all’età mia mi hanno voluto togliere pure ‘sto mito! Non è vero che la bellezza è tutto, così torniamo indietro e poi che vogliamo fare, il curriculum te lo fa il chirurgo plastico?».
Lei è una voce in controtendenza nel Pdl. Le sue colleghe tendono a liquidare le manifestazioni di domenica con…
Con la solita battuta che erano tutte donne di sinistra. Penso che questo sia il primo problema, perché se fosse vero noi, come donne del centrodestra, dovremmo essere molto preoccupate. Se non erano tutte donne di sinistra, cos’erano? Persone, donne normali. Anche formalmente non c’erano bandiere di partito e i visi di queste donne c’erano anche gli uomini, ma parliamo delle donne erano francamente visi del popolo, di gente comune. Ecco, io credo che dopo manifestazioni cosi importanti si debba riflettere.
Che tipo di riflessione andrebbe fatta?
Visto che si è parlato tanto di prostituzione e visto che tutti noi chiediamo rigore, che poi non è essere moralisti, penso che una legge sia necessaria e urgente. E poi basta, basta, basta con gli equivoci, basta con situazioni… basta con tante cose. Basta. Non so, loro hanno detto basta e io credo che quel basta per noi che siamo in politica, per noi del centrodestra, sia un ‘mettiamo un punto, andiamo a capo e ricominciamo a lavorare”. Forse anche diversamente.
Bisogna voltare pagina?
Sì, bisogna prenderne atto. Nel senso che magari non è per colpa nostra, vai a capire, ma ormai in questo giro ci stiamo e occorre rispetto per quello che è successo domenica. È evidente che non erano radical chic, è chiaro che qualcuna lo era anche e magari la maggioranza era anche contro Berlusconi, ma non si può negare di aver visto tanti manifestanti. Se noi andiamo a escludere quella parte lì, che facciamo? Non ci conviene nemmeno dire che erano tutte donne di sinistra, perché allora è meglio che ce ne andiamo a casa. Invece, si deve cogliere la voglia di voltare pagina, di dire che la donna non deve essere per forza bella. Noi vogliamo essere racchie, brutte, cessi, ma stare tranquille, essere rispettate per quello che siamo. Se il nostro manifesto è quella lettera agghiacciante della Minetti, tanto più stridente in quanto è stata pubblicata nel giorno delle manifestazioni come se fosse una risposta alla piazza, se il nostro manifesto è quella lettera io non ci sto. Io voglio essere vecchia e racchia, posso esserlo?
Ma lei non lo è…
E invece voglio esserlo, Posso essere vecchia e racchia, senza che questo cambi la valutazione sulle mie capacità? La questione che emerge dalla piazza è la considerazione del merito: io ho sentito molte donne orgogliose di dire che attraverso i sacrifici studiano, vanno a scuola, hanno un lavoro. È a questo che dobbiamo rispondere, e non possiamo farlo con una cosa come quella lettera. Io sono fuori di me, non ho parole. Noi dobbiamo rispondere con l’azione politica, non ridicolizzando o minimizzando. Quelle sono donne che, votino questo governo o no, vogliono delle risposte. Noi come governo abbiamo fatto delle leggi, ma evidentemente non c’è più sincronia con quello che è l’aspetto anche esteriore. E su questo credo che serva riflettere con molta attenzione.
Ne ha parlato con le sue colleghe?
Non ho parlato con nessuno, con chi devo parlare? Non lo so. Non o perché quella scrive quella lettera… perché dicono che sono tutte radical chic… Io non me la sento di dirlo, non è vero e non si fa nemmeno un gran bene a un partito come il nostro, che è ancora maggioritario, e a un presidente come il nostro, che è sempre molto sensibile ai sentimenti della gente.
Onorevole, ha sentito la telefonata dì Berlusconi a “Mattino 5″?
Il premier ha detto che la piazza era faziosa… Ha parlato anche del teorema della magistratura, e indubbiamente quello che stiamo vivendo tra magistratura e procure è un’anomalia. Questo è evidente e io lo devo dire. È tutto vero. Poi però, quando succede un fatto così importante come quello di domenica, visto che noi facciamo politica e non altro, allora bisogna essere attenti, bisogna riuscire a venire incontro alle istanze della gente. Se non lo si capisce, questo sì che è un problema.
Si è rotto il sortilegio
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:48
di Concita De Gregorio, L’Unità, 15 febbraio 2011
Una giornalista di Haaretz, quotidiano israeliano, mi domandava ieri se la manifestazione di domenica possa essere l’inizio di un vero cambiamento o se invece ci si debba rassegnare all’evidenza che Berlusconi rappresenta l’uomo-tipo italiano. È una domanda ricorrente, la grande questione agli occhi del mondo è tutta qui: davvero lo votano perchè li rappresenta? Com’è possibile?
Non so dire se Berlusconi ispiri o cavalchi la natura dell’uomo-tipo italiano, non sarei nemmeno sicura in verità che esista un uomo-tipo e cosa significhi esattamente. Credo che l’italianità c’entri poco con le reali ragioni del consenso di cui gode l’uomo, ragioni piuttosto fondate sul potere economico di cui dispone, sui suoi mezzi di persuasione e sulla sua capacità di corruzione. Sul suo potere d’acquisto, in sintesi. Sulla sua forza e sull’altrui debolezza. Che poi vittime e carnefici si scambino le parti in commedia, in corso d’opera, è materia di cui la letteratura d’ogni tempo abbonda di spunti.
Quello che so per certo, e che da domenica sanno anche molti altri, è che non rappresenta le donne italiane. Alcune non le ha mai rappresentate. Moltissime altre non le rappresenta più. Si è rotto l’incantesimo, o piuttosto il sortilegio. Questo ci dice oggi Susanna Camusso in un’intervista in cui chiama all’appello anche il centrosinistra, infine. La ragione per cui Berlusconi risponde all’evidenza delle piazze in modo non solo volgare e violento, come di solito, ma questa volta inappropriato e patetico (“io le donne le amo”) è che non ha gli strumenti nè le parole per reagire ad un fatto nuovo: una piazza di persone normali, coi volti che natura ed età hanno concesso, nonne e nipoti che l’avevano anche votato, alcune. Una piazza popolare senza insegne nè bandiere che non è la sua. Una piazza di donne che non è la sua. Ha perso le donne italiane. Certo, bisognerà contarle.
Bisognerà che il movimento si trasformi in un motore di politica e si traduca in elettorato: in voti. Ci vorrebbero le elezioni a dimostrarlo, quelle che lui non vuole. I sondaggi gli dicono che è meglio di no. A noi piacerebbe la prova dei fatti, invece. Ci piacerebbe che davvero si desse la parola agli italiani, alle italiane. Al più presto, prima che abbia il tempo di allestire un nuovo mercato, di spaventare con nuove paure e promettere alte bugie. E sarà difficile comunque, anche se quel tempo gli sarà dato: qualcosa si è rotto, il sortilegio si è spezzato. Sulle donne ha fondato la sua fortuna, saranno le donne a decretarne il congedo. Meglio sarebbe se le opposizioni, dice Camusso, capissero il segnale e ne traessero loro pure saggezza. Più donne nella politica, più politica per le donne. Chi saprà dare casa alla domanda di domenica avrà in mano l’Italia, la responsabilità del suo futuro.
Basta stereotipi, difendiamo la dignità
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:51
Il SOle 24 Ore, 15 febbraio 2011
Caro direttore,
ti scriviamo per prendere nettamente le distanze dal fondo del giornale di domenica 13 febbraio che, a cominciare dal titolo “Sciarpe e mutande e in mezzo il niente”, riteniamo cerchiobottista, qualunquista e soprattutto offensivo di quanti/e non solo domenica, ma nella quotidianità della propria vita, difendono non a parole, ma con i fatti, la dignità della persona, del lavoro, della politica e di un’etica della responsabilità divenuta ormai rara.
Prendiamo le distanze da chi si permette di dubitare persino che esista un’idea o un pensiero forte dietro la rivendicazione del rispetto e della dignità della persona e non ha altri argomenti da offrire se non gli stereotipi del “sotto il vestito niente”, del “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, dell’eskimo degli anni 70.
Non si tratta di essere pro o contro Ferrara, pro o contro le donne che scendono in piazza, ma di abbandonare pregiudizi, stereotipi, qualunquismi, per prendere una posizione. Trasparente, laica. Un giornale che ha la pretesa di essere leader proprio sul fronte delle idee non dovrebbe rinunciare ad averne una, precisa e riconoscibile, in un momento così difficile per il paese. Né può pensare di continuare a irridere la piazza (altro stereotipo) e i simboli che la rappresentano, piuttosto che ascoltare la voce di chi vi partecipa. La storia, anche recentissima, dimostra che questo è un atteggiamento miope, politicamente e culturalmente.
Le migliaia di persone presenti in piazza domenica hanno da dire molto di più di quanto spesso si legge in intere pagine di giornale, e non meritano di essere etichettate a priori come “il niente”. Per noi, che di mestiere facciamo i giornalisti e in questo mestiere continuiamo a credere, c’è infatti una regola fondamentale e inderogabile, che è quella di commentare i fatti solo dopo esserne stati testimoni, diretti o indiretti, non prima che i fatti siano accaduti, com’è successo in questo caso. E poiché riteniamo che la giornata di domenica non sia stata una mera esibizione narcisistica, che gli slogan non sono – come si legge nel fondo – “un po’ vuoti” e che non è vero che dietro i cortei ci sia solo “una guerra di trincea”, ti chiediamo la pubblicazione di questa nostra lettera.
Donatella Stasio, Barbara Fiammeri, Celestina Dominelli, Anna Del Freo, Francesca Padula, Laura Serafini, Antonella Olivieri, Francesca Cerati, Cristina Casadei, Rossella Cadeo, Eliana Di Caro, Sissi Bellomo, Antonella Scott, Antonella Moro, Federica Micardi, Franca Deponti, Micaela Cappellini, Mariolina Sesto, Silvia Sperandio, Rosalba Reggio, Chiara Bussi, Laura Cavestri, Alessia Maccaferri, Nicoletta Cottone, Chiara Somajni, Lara Ricci, Francesca Barbiero, Anna Maria Luccarini, Francesca Barbieri, Valentina Maglione, Lucilla Incorvati, Federica Pezzatti, Cristina Battocletti, Ilaria Vesentini, Elena Ragusin, Mara Monti, Filomena Greco, Paola Dezza.
Femminismo, il nuovo che riemerge
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:53
di Valentino Parlato, Il manifesto, 15 febbraio 2011
Quella di domenica 13 febbraio 2011 diventerà, a mio parere, una data storica. Mai, nei quasi 150 anni di Italia unita, c’è stata una manifestazione di donne, nazionale e di così grande portata. Più di un milione di donne, giovani e anziane e di diversi ceti sociali. È conseguente affermare che un nuovo soggetto, un nuovo protagonista è entrato nella politica italiana. E di questo nuovo soggetto occorre studiare i pensieri, il malessere e gli obiettivi emergenti. È un passo avanti del femminismo che non è nato ieri, ma che solo da poco ha avuto una presenza di massa sulla scena politica italiana.
È importante e certo, ma ridurre questa giornata solo all’antiberlusconismo sarebbe – sempre a mio parere – riduttivo. Tanto più che Berlusconi accecato com’è non sarà assolutamente in grado di tenerne conto. Dirà, come sta dicendo, che si tratta dell’ennesimo attacco fazioso contro di lui, un’aggressione comunista (ormai in Italia è il solo a usare questa parola). Tuttavia teme assai che questa più recente valanga possa travolgerlo. E non è detto che non accada anche in tempi brevi.
Stando così le cose penso che chi debba di più riflettere sulla giornata del 13 febbraio siano i partiti democratici e soprattutto quelli che si dicono di sinistra, il Pd innanzitutto, ma anche (e forse di più) Rifondazione e Sinistra e Libertà. Come dimenticare che condizione forte della manifestazione del 13 era l’esclusione della bandiera di partito? Ridurre la manifestazione del 13 febbraio a un’altra spintonata contro Berlusconi e basta sarebbe da ciechi e sordi. Non so (io) bene quanta connessione ci sia con il femminismo e la sua cultura, ma mi sembra certo che la manifestazione del 13 febbraio faccia emergere, porti a livello politico, le esigenze e i problemi che da tempo maturano nella cultura e nella politica delle donne e che sono alla radice della grande manifestazione, finora (a parte le facili retoriche dei comizi) tenuti in secondo piano: facciamo noi uomini e poi le donne – come l’intendenza – seguiranno. Sarebbe un errore grave e pericoloso, così come sarebbe poco produttivo ridurre la manifestazione del 13 solo all’antiberlusconismo, che certamente c’era e c’è e deve pesare, ma non è tutto. Cerchino di capire il nuovo che riemerge. E va detto, ripeto, ai partiti che si dicono di sinistra e che, attualmente, si caratterizzano per il vuoto culturale.
La stampa cattolica: bene le donne in piazza
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:55
di Giansoldati Franca, Il Messaggero, 15 febbraio 2011
CITTA’ DEL VATICANO – «Tanta Italia in tante piazze» sintetizza Famiglia Cristiana mentre l’Osservatore Romano aggiunge «per difendere la dignità della donna». La stampa cattolica esalta così il valore (anche politico) della massiccia adesione femminile alla manifestazione antiberlusconiana di domenica. Non è casuale sc il settimanale dei Paolini si sia voluto esprimere in quel modo («Tanta Italia in tante piazze»): erano giorni che continuavano ad arrivare in redazione lettere su lettere di lettrici sgomente. Madri di famiglia, lavoratrici, studentesse, disoccupate, giovanissime che manifestavano il proprio disagio. Un sentimento diffuso e trasversale per-chè lo scandalo delle olgettinc e del Ruby-gate va a cozzare contro tutti i modelli educativi introiettati in parrocchia. Il medesimo sgomento è stato raccolto da molti parroci, come del resto si evince dalla sfilza di testimonianze collezionate da Adista, punto di riferimento dei cattolici di base. Preti di Parma e provincia, di Lecco, Reggio Emilia, Chieti, Perugia hanno inviato testimonianze e riflessioni. Don Aldo Auto-nelli, parroco di Antrosano, un piccolo borgo abruzzese, ha pesato dal punto di vista morale la manifestazione affermando: è stato un giorno felice ma al tempo stesso triste. «Triste perché è umiliante il fatto stesso di dover rivendicare quella dignità che dovrebbe essere un pre-requisito di ogni Paese che si voglia dire civile. Felice perché nel silenzio omertoso della società distratta le donne hanno avuto il coraggio di gridare la rabbia e, insieme, la ripulsa contro una politica che fa strame della loro presenza e della loro dignità». Don Aldo difende a spada tratta l’evento di piazza. Chi critica non ha capito niente. «Il mercante che ci governa e i mercenari che lo supportano continuano a bollare di moralismo questa battaglia di rivendicazione di dignità. Ma noi tutti sappiamo bene che non è tanto un problema di morale quanto, appunto, una questione di dignità. Quella dignità che non conosce chi compra e vende le persone». Parole pesanti come macigni, ampiamente condivise da molti parroci come lui attraverso una specie di rete nata e proliferata via web. grazie alla quale è possibile misurare il cuore pulsante di una buona fetta di cattolici. In piazza sonno scese anche le Acli per denunciare lo stato di «disorientamento che si sta vivendo», oltre che«alla discutibilità dei comportamenti che ci vengono serviti quasi quotidianamente come normali, tollerabili, giustificabili».
La bandiera della dignità
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 08:58
di STEFANO RODOTÀ, La Repubblica, 15 febbraio 2011
È tempo di liberarsi dello spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte della stessa opposizione. È questa l’indicazione (la lezione?) che viene dai molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del “risveglio della società civile” o di qualche partito “a vocazione maggioritaria”. Non sono fiammate destinate a spegnersi, esasperazioni d’un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non sono frammenti di società, grumi di interesse. È un movimento costante che accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare un senso. È l’opposto delle maggioranze “silenziose” che si consegnano, passive, in mani altrui.
Donne, lavoratori, studenti, mondo della cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il suo fondamento nell’accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere critico. Dignità d’ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente.
Proprio da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l’hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l’intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica. È qui la radice dello straordinario successo di domenica, della consapevolezza d’essere di fronte ad una opportunità che non poteva essere perduta e che ha spinto tanti uomini ad essere presenti e tante donne a non cedere alla tentazione di rifiutarli, perché non s’era di fronte ad una generica “solidarietà” o alla pretesa di impadronirsi della parola altrui.
Chi è rimasto prigioniero di se stesso, delle proprie ossessioni, è il Presidente dal consiglio, al quale era offerta una straordinaria opportunità per rimanere silenzioso, una volta tanto rispettoso degli altri. E invece altro non ha saputo trovare che le parole logore della polemica aggressiva, testimonianza eloquente della sua incapacità di comprendere i fenomeni sociali fuori di una rozza logica del potere. La vera faziosità è quella sua e di chi lo circonda, privi come sono di qualsiasi strumento culturale e quindi sempre più votati al rifiuto d’ogni dimensione argomentativa. Dignità, per loro, è parola senza senso, parte d’una lingua che sono incapaci di parlare.
Nelle diverse manifestazioni, invece, si coglie la sintonia con le dinamiche che segnano questi anni. Le grandi ricerche di Luis Dumont ci hanno aiutato nel cogliere il passaggio dall’homo hierarchicus all’homo aequalis. Ma nei tempi recenti quel cammino si è allungato, ha visto comparire i tratti l’homo dignus, e proprio la dignità segna sempre più esplicitamente l’inizio del millennio, costituisce il punto d’avvio, il fondamento di costituzioni e carte dei diritti. Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo dell’ultima fase. Se la “rivoluzione dell’eguaglianza” era stato il connotato della modernità, la “rivoluzione della dignità” segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l’era della “costituzionalizzazione” della persona e dei nuovi rapporti che la legano all’innovazione scientifica e tecnologica.
“Per vivere – ci ha ricordato Primo Levi – occorre un’identità, ossia una dignità”. Solo da qui, dalla radice dell’umanità, può riprendere il cammino dei diritti. E proprio la forza unificante della dignità ci allontana da una costruzione dell’identità oppositiva, escludente, violenta, che ha giustamente spinto Francesco Remotti a scrivere contro quell’”ossessione identitaria” che non solo nel nostro paese sta avvelenando la convivenza civile. La dignità sociale, quella di cui ci parla l’articolo 3 della Costituzione, è invece costruzione di legami sociali, è anche la dignità dell’altro, dunque qualcosa che unifica e non divide, e che così produce rispetto e eguaglianza.
Le manifestazioni di questi tempi, e quella di domenica con evidenza particolare, rivendicano il diritto a “un’esistenza libera e dignitosa”. Sono le parole che leggiamo nell’articolo 36 della Costituzione che descrivono una condizione umana e sottolineano il nesso che lega inscindibilmente libertà e dignità. Più avanti, quando l’articolo 41 esclude che l’iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili, e si può comprendere, allora, quale lacerazione provocherebbe nel tessuto costituzionale la minacciata riforma di quell’articolo, un vero “sbrego”, come amava definire le sue idee di riforma costituzionale la franchezza cinica di Gianfranco Miglio. Intorno alla dignità, dunque, si delinea un nuovo rapporto tra principi, che vede la dignità dialogare con inedita efficacia con libertà e eguaglianza. Questa, peraltro, è la via segnata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Qui, dopo aver sottolineato nel Preambolo che l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”, la Carta si apre con una affermazione inequivocabile: “La dignità umana è inviolabile”.
Proprio questo quadro di principi costituisce il contesto all’interno del quale i diversi movimenti si sono concretamente mossi, individuando così quella che deve essere considerata la vera agenda politica, la piattaforma comune delle forze di opposizione. Diritti delle persone, lavoro, conoscenza non si presentano come astrazioni. Ciascuna di quelle parole rinvia non solo a bisogni concreti, ma individua ormai pure forze davvero ” politiche”, che si presentano con evidenza sempre maggiore come soggetti attivi perché quei bisogni possano essere soddisfatti.
Viene così rovesciato le schema dell’antipolitica, e si pone il problema della capacità dei diversi gruppi di opposizione di trovare legami veri con questa realtà. I segnali venuti finora sono deboli, troppo spesso sopraffatti dalle eterne logiche oligarchiche, dagli egoismi identitari di ciascun partito o gruppo politico. Si lamenta che ai problemi reali non si dia il giusto risalto. Ma chi è responsabile di tutto questo? Non quelli che con quei problemi si sono identificati, sì che oggi la responsabilità di farli entrare nel modo corretto nell’agenda politica ufficiale dipende dalla capacità dei partiti di trovare il giusto rapporto con i movimenti presenti nella società, di essere per loro interlocutori credibili.
Torna così la questione iniziale, perché proprio questo è il cammino da seguire per abbandonare ogni spirito minoritario e ridare vigore ad una vera politica di opposizione. Le manifestazioni di questi mesi, infatti, dovrebbero essere valutate partendo anche da un dato che tutte le analisi serie sottolineano continuamente, e cioè che Berlusconi non ha il consenso della maggioranza degli italiani, non avendo mai superato il 37%. Il bagno di realtà di domenica, che ne accompagna tanti altri, dovrebbe indurre a volgere lo sguardo verso la vera maggioranza, perché solo così un vero cambiamento è possibile.
Una lezione ai maschi
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:00
di ADRIANO SOFRI, La Repubblica, 15 febbraio 2011
È inevitabile che le manifestazioni collettive sollevino qualche dubbio, e anche quella delle donne di domenica. Non avevo mai sentito tante buone ragioni per aderire a una manifestazione. E non avevo mai sentito pretesti così capziosi e vanesi per non aderire. Lo svolgimento è stato magnifico.
Tanto tempo fa, noi uomini (molti di noi, almeno) che respingevamo con sdegno l’eventualità di stare mai dalla parte dei padroni, fummo costretti a un estremo imbarazzo, o a vergognarci francamente, quando di colpo ci venne rinfacciato di essere i padroni nel rapporto con le “nostre” donne, e le altre. Non era facile reagire: diventare donne, o un altro dei generi possibili, riesce solo a pochi, e restare maschi sapendo di essere in torto era seccante. A parte qualche provvedimento di correzione personale – palliativi, del resto – l’ideale era che le donne contassero per la maggioranza che sono, e per l’intelligenza peculiare di cui qualche millennio di raggiri e prepotenze le ha dotate, e allora gli uomini potessero rivendicarsi tali a ricominciare da una leale condizione di minorità.
Che questo avvenisse nell’arco della nostra esistenza personale, nonostante la longevità moderna, era da escludere. E per giunta la storia mondiale è andata in un modo tale che gli uomini si sono presi una quantità di rivalse, cruente o no, sulla risalita delle donne. Naturalmente donne e uomini sono categorie troppo generali perché si trascuri il rilievo dei casi individuali, cioè delle persone. Va da sé che anche delle donne possono essere scemissime, e titolari di dicastero.
Tuttavia la statistica conserva una sua presa. Ho visto che fra pochi giorni si apre a Bruxelles una importante fiera del libro intitolata “Il mondo appartiene alle donne”. Immagino che sia un auspicio, e anche così lascia perplessi, per quell’intonazione proprietaria, peraltro giustificata dalla convinzione opposta, data per ovvia, che il mondo appartenga agli uomini. (Tant’è vero che dicemmo “uomini” invece che maschi o esseri umani, per annetterci le donne).
Noi uomini non possiamo convocare una nostra manifestazione, perché tutte le manifestazioni sono state nostre – abbiamo finito a volte per invadere di forza quelle di sole donne. Non proclamiamo mai di fare qualcosa “in quanto uomini”, perché tutto quello che facciamo lo facciamo in quanto uomini. Possiamo immaginare ora che il mondo non ci appartenga più, o almeno che noi tutti, donne e uomini, e cavalli e tonni rossi, gli apparteniamo quanto lui appartiene a noi.
Ci vorrà parecchio tempo, nella migliore delle ipotesi. Però, per uomini fieri e sportivi e azionisti e allegri di minoranza come ci figuriamo, sarà bellissimo dividerci accanitamente sull’accettabilità delle quote celesti, e sfilare con i cartelli che dicono: “Non siamo panda giganti”, e alla fine indire cortei in 2.300 città ammettendo, anzi richiedendo, la partecipazione di donne. Da domenica, ci siamo un po’ meno lontani.
IL SEGRETO DELLE DONNE
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:02
di Norma Rangeri, Il MAnifesto, 15 febbraio 2011
Ci sono momenti in cui è necessario farsi vedere anche dai ciechi. Così eccole le donne date per disperse, eccole nelle piazze stracolme, con molti uomini, nessun moralismo contro le prostitute di Arcore, senza bandiere di partito, contro Berlusconi, obiettivo numero uno ma, a seguire, contro molti altri democratici esemplari del suo sesso. L’impetuosa marea è stata, altro fatto inedito, alimentata da una discussione larga che l’ha rafforzata. Le donne sono fatte così: discutono ma curano le radici, affilano la critica ma costruiscono relazioni e quando è il momento di dare una scossa scatenano il terremoto.
La forza dei numeri e la ricchezza dei contenuti hanno prodotto un evento politico che può stupire solo chi non ha mai capito molto del femminismo italiano. Le donne in piazza hanno mostrato che le trovi là dove sono sempre state, nella società e nella cultura, dentro e fuori la famiglia, dentro e soprattutto fuori i partiti. Una lezione a questa classe dirigente (dalla politica all’informazione) che reagisce solo davanti alle piazze piene. Era stupefacente, nel day-after, scoprire gli autorevoli giornaloni nazionali “aprire”, per una volta nella loro centenaria storia, con le ragioni del paese anziché con le convulsioni del palazzo. Anche se poi lo stile, di commenti e cronache, non riusciva proprio a evitare il “colore”, l’ironico ammiccamento a quella sconosciuta dell’università Virginia Wolf (fondatrice di uno dei centri più importanti della storia del femminismo italiano) salita sul palco.
Non avremmo avuto la folla straripante del 13 febbraio senza la sedimentazione di una cultura politica forte e sempre attiva, nella riflessione come nella quotidiana esperienza di vita. Non avremmo avuto discorsi e domande dove sempre si recitano comizi e slogan. Dal palco arrivano le parole di tutte le altre. Parlano del corpo di Ruby come dell’economia che ci sgoverna, delle responsabilità della sinistra, del potere maschile. L’attrice, la studentessa, la poetessa, la suora raccontano le esperienze dolorose delle persone.
Berlusconi accusa le manifestanti di essere “faziose”, perché le vere donne possono solo amarlo. I berlusconiani in mutande alimentano questo surreale delirio, le ministre cooptate dal sultano balbettano di piazze «radical-chic». Radicali di sicuro e chic non è un peccato, né un reato. Bersani invece applaude alla grande prova di democrazia, spera che «sia colta la voce arrivata dalla piazza». Sarebbe ora perché la campana suona anche per lui.
Le donne hanno un paese caricato sulle proprie spalle (anche prima dell’era berlusconiana), sanno che di questi partiti non possono fidarsi, forse hanno delegato troppo a una rappresentanza sempre più asfittica e povera, chiedono un’opposizione all’altezza del disastro in cui siamo. Sono consapevoli della necessità di far fronte tanto alle macerie del berlusconismo quanto alle sconfitte della sinistra. Le manifestazioni segnalano la presenza di un soggetto che spinge per cambiare l’agenda politica. Naturalmente mandando a casa Berlusconi, ma non solo lui.
Gamberale e le sfumature del pensiero
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:13
lettera di Chiara Gamberale, L’Unità, 16 febbraio 2011
Al Corriere della Sera
Caro Direttore,
il Suo giornale del 6 febbraio scorso, ha ospitato un confronto (per me stimolante e fecondo) sul tema della dignità fra le donne fra Dacia Maraini e me. Chiamate a esprimerci su diverse questioni, ci è stato chiesto anche un parere sulla manifestazione del 13 febbraio: nei confronti della quale ho voluto condividere delle perplessità, sottolineando, però, con fermezza, il mio profondo sdegno, da cittadina, per la degenerazione dello spirito delle Istituzioni a cui il nostro Paese è tristemente costretto ad assistere.
La piazza dopo la piazza
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:24
di Lidia Ravera, L’Unità, 16 febbraio 2011
In piazza in mezzo alle altre. Contenta. Quella pulsazione segreta. Quel calore. Attraversando a fatica la folla, mi piaceva chiedere “scusa, mi fai passare?” e prendermi il sorriso di chi avevo toccato sulla spalla. Sembra stupido, ma in una città diventata ringhiosa come Roma, dove in auto senti urla belluine e insulti a sfondo sessista, è un sollievo, essere fra sorridenti. Sentirsi comunità. Piccoli regali del vivere. Dunque stavamo lì, ad ascoltare testimonianze e discorsi. Non comizi. Un palco poco piazzaiolo. Tutti tonetti pacati, tutti pensieri puliti. Quasi nessuna eccedenza logorroica sui risicati tempi dell’attenzione di massa. Ho pensato: bello, le donne. È un’altra voce. Un altro timbro. Altre parole. Un altro stile. Ho realizzato di essere stanca dell’invadenza di genere: sempre ascoltare il maschio stentoreo politico. In televisione: azzannando l’avversario, masticandolo con le fauci spalancate. In piazza: trionfando su qualsiasi dubbio o angoscia collettiva. No, non sto dicendo che siamo “belline e dolci”. Sto dicendo che non siamo stridule, non siamo esenti da dubbi, abbiamo il gusto delle sfumature. O forse sto solo godendo delle buone novità. Per esempio: lo spirito unitario. Sono state brave le ragazze del comitato promotore a non barricarsi dietro gli steccati. Hanno composto un <CF161>bouquet</CF> vario: testimoni, poete, una femminista, una sindacalista, una “dall’altra parte” (Ma ha difeso Andreotti! Pazienza…) un uomo che pratica la riflessione di genere come femminismo insegna… Si sono piazzate orgogliosamente nel presente. Pagando la voglia di palingenesi con qualche storica esclusione. Ho pensato: sarebbe bello che questa piazza trovasse la sua rappresentanza. Non un partito che ci mette sopra il cappello. Un qualcosa che nasce di lì… Sogno troppo?
E poi ci sono donne che con pazienza cambiano il mondo
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:30
di Francesca Rigotti, L’Unità, 17 febbraio 2011
Le donne cambiano il mondo. «Come fai a saperlo?» «Che cosa?» «Che le donne cambiano il mondo, l’hai appena detto!» «Ho trovato delle tracce, dei documenti, ho visto le foto, l’ho letto sui giornali» «Tu credi ai giornali, ti fidi delle foto, di Internet, di Facebook?» «Sì, anche se con un po’ di cautela, altrimenti come farei ad accumulare esperienza e conoscenza, se non attraverso la testimonianza di altri? Non posso certo fare tutto da sola, affidarmi soltanto alla mia memoria, alla mia ragione e alla mia percezione: la mia conoscenza sarebbe troppo limitata!»
(Questa, cara lettrice e caro lettore, non è la recensione dell’ultimo libro di Nicla Vassallo, che discute e analizza proprio quest’ordine di problemi - Per sentito dire. Conoscenza e testimonianza, Milano, Feltrinelli, 2011) ed è frizzante e intelligente come lei che è un filosofo donna. Questo è un dialogo immaginario condotto in quello stile. Continuo).
«Giusto. Dunque quali testimonianze hai raccolto?» «Ecco: non sono mai stata in Birmania ma ho letto che lì c’è una donna tenace e coraggiosa che non si è mai data per vinta e che ha un nome pieno di significato, per noi europei.
Si chiama Aung San Suu Kyi, san sou ki, sans souci, senza pene, senza affanni, e così sembra che viva e lotti, col sorriso sulla bocca e un fiore nei capelli, anche se è stata segregata per tantissimi anni».
«Che bello, e poi?» «Poi ci sono tantissime donne, centinaia di migliaia, le ho viste alla TV e in foto sui siti web e anche di persona, alla piccola manifestazione cui ho partecipato, donne italiane che manifestavano la propria dignità violata dal presidente del consiglio del loro paese e da pratiche che continuano a trascurarle e umiliarle».
«Dài, racconta ancora». «Ti dirò allora che in una piccola repubblica in mezzo alle montagne c’è un consiglio federale, un governo cioè, composto in maggioranza da donne». «Parli della Svizzera? Ma lì le donne non hanno ottenuto il voto soltanto nel 1971?»
«Proprio la Svizzera: pensa quanta strada hanno fatto in pochi anni. E quelle ministre sono donne normali, sai, non persone reclutate per la loro avvenenza o il loro opportunismo». «Fortunato quel paese. Non sembra proprio così vicino all’Italia». «E dove cambiano ancora il mondo le donne?» «Dove scendono anch’esse in piazza per abbattere i dittatori, anche se sono così poche che nemmeno si vedono nelle immagini dei telegiornali.
Finalmente il vento del cambiamento
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:33
di Barbara Pollastrini, L’Unità, 18 febbraio 2011
Una mobilitazione così non si vedeva da anni, pensata e sospinta da donne che si sono fatte guida e testimoni di un’altra Italia. Quelle piazze hanno colto un sentimento d’indignazione e riscossa che impone alla politica di ripensarsi, di osare di più. La stessa indicazione ci viene da studenti, ricercatori, lavoratori, da chi difende il biotestamento o si batte per la legalità o le domande di migranti disperati. Le donne sono ovunque e da protagoniste. Con passione indicano un’altra idea di crescita e una distribuzione diversa delle opportunità.
C’è un popolo che si ritrova, può farsi maggioranza e forse lo è già. Ma è un popolo esigente nella sua domanda di rappresentanza, di valori. E allora tocca a noi trovare le parole giuste. In particolare quelle che hanno illuminato la coscienza delle donne. La dignità in primo luogo, nella formazione, nel lavoro, nelle libertà. La dignità di farcela in base al merito. Viene anche da qui la contestazione a un premier che ha deriso le regole in un delirio d’impunità. Ma è proprio lì il punto perché, come scrive Rodotà, la rivoluzione della dignità è la radice da cui può ripartire il cammino dei diritti. Donne, giovani, operai, sono angosciati per un futuro incerto e consapevoli del legame tra la società che si è formata e la rappresentanza dei loro interessi. È stato così anche in passato.
L’ordine dei bisogni è mutato quando una rivendicazione giusta si è fatta carico dell’interesse degli altri, di un bene comune e, da richiesta di parte, è divenuta battaglia di civiltà. Fu così per la giornata lavorativa di otto ore, il divorzio o l’aborto. Il tema dunque è quell’uguaglianza di diritti – umani, civili, sociali – che mai come oggi la politica deve interpretare nella loro unità se vuole indicare un approdo e dare nerbo a quella che altrimenti appare una somma fredda di alleanze. Ciò che lega la dignità sociale e i diritti è il valore della persona, la sua autonomia, la sua responsabilità come alimento di doveri e di civismo condivisi. Se è così forza e leadership delle donne devono condividere la guida di una riscossa. Ma non è scontato che accada e dovremo lottare ancora. Se il Pd non supera pigrizie culturali e vecchie consuetudini questa volta rischia di smarrire il senso della storia.
Un nuovo patto repubblicano non è dato senza un cambiamento delle logiche del potere. E aggiungo che, per vincere, il voto femminile sarà decisivo. Un voto da chiedere subito. Oggi si apre la Conferenza delle Democratiche. Vorrei fosse un’occasione di verità e di speranza. Di verità perché dobbiamo dirci che qualcosa in questi anni non ha funzionato. Anche noi, al di là dell’impegno e del valore di ognuna, non abbiamo capito per tempo la deriva del liberismo e di quel populismo che ha le radici nella storia peggiore del Paese. Anche noi non abbiamo combattuto abbastanza le subalternità di un riformismo smagrito nelle sue ambizioni. Non abbiamo scavato a sufficienza sui fondamenti del nostro partito ancora in larga misura da costruire. Così buoni programmi e pratiche non hanno trovato un collante. Ne è risultata offuscata un’autonomia femminile capace di valorizzare le nostre differenze e anche di confliggere con quanto non va. Oggi però, se cogliamo lo spirito del tempo, è possibile colmare lo scarto. Perché la storia delle donne incontra tante giovani.
Nelle piazze c’era speranza. C’era la fierezza anche per un dibattito pubblico che si è riaperto. Perché si ricostruiscono ponti tra politica e società. E di questo sono grata alle amiche dei comitati e all’Unità e ci sarò con le mie idee agli stati generali. C’è speranza perché entrano in campo leadership femminili e soprattutto perché nel mondo soffia impetuoso il vento della libertà delle donne e sa contaminare. Non è poco e si può ripartire.
«Bene il tavolo trasversale, ma che sia vero»
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:40
di Giulia Giordano (consigliere regionale Idv nel Lazio), L’Unità, 18 febbraio 2011
La replica all’intervento di Isabella Rauti. «D’accordo per il confronto bipartisan. Però non si liquidino le esigenze delle donne che sono scese in piazza come poco importanti. E visto che ci siamo affrontiamo anche il tema della fecondazione assistita».
Domenica vale la pena scendere in piazza con le altre donne, ma non solo contro silvio
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:49
di Lucia Annunziata, Gioia, 19 febbraio 2011
Con lo slogan «Se non ora, quando?»domenica prossima scenderanno in piazza molte (si spera moltissime) donne italiane. E’ una protesta per rivendicare la dignità della metà del cielo del Belpaese, «la cui ricca e varia esperienza di vita è cancellata dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale, offerta da giornali, tv, pubblicità. E ciò non è più tollerabile.
Il D (donna) Day
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:54
OGGI, 23 febbraio 2011
Questa Ondata rosa può cambiare la politica e la società?
“Basta essere complici”
Inrassegna stampa su 27 febbraio 2011 a 09:59
di Marco Damilano, L’Espresso, 24 febbraio 2011
Giulia Bongiorno, avvocato ed esponente dei finiani, lancia un appello alle donne del Pdl: “Non è più il momento di tacere per obbedire al capo. Oggi stare zitte significa accettare una cultura che ci sottomette”(17 febbraio 2011)Giulia BongiornoA Roma, alla manifestazione di piazza del Popolo, è stata tra le più applaudite, sfoderando sul palco la grinta che ben conoscono Silvio Berlusconi e l’avvocato Niccolò Ghedini: “Basta con le carriere politiche nate nei festini”, ha scandito. Giulia Bongiorno, da presidente della commissione Giustizia della Camera vicinissima a Gianfranco Fini, i suoi no al Cavaliere li ha detti in tempi non sospetti: bloccando le leggi sul processo breve e sulle intercettazioni. Ora chiede alle colleghe del Pdl un atto di coraggio: “Tacere oggi significa essere complici”. Sul processo non entra nel merito, vorrebbe suonare tranquillizzante per il Cavaliere: “Berlusconi dovrebbe essere felice di essere giudicato da tre donne…”. Ma avverte su eventuali colpi di mano parlamentari per strappare la competenza a Milano: “Se vuole continuare a fare il premier non può ricorrere alle scorciatoie, deve affrontare a viso aperto il processo e dimostrare nel dibattimento l’infondatezza delle accuse”.
Il premier ha accusato la piazza delle donne di essere puramente anti-berlusconiana. Per lei quali obiettivi deve darsi questo movimento?
“Questo moto spontaneo e grandioso fa paura e si tenta di indebolirlo attribuendogli una matrice politica: invece alle manifestazioni ha partecipato una folla eterogenea, moltissimi dei presenti erano lontani dalla politica. È la spontaneità della risposta il dato più importante, la forza di questo movimento. Quello che unisce persone diversissime tra loro è molto più dell’antiberlusconismo: sicuramente è anche gente stanca di Berlusconi, ma è soprattutto gente che crede nelle donne. L’Italia non può più rinunciare ad avere donne in ruoli chiave”.
Anche alla leadership? Nichi Vendola ha candidato Rosy Bindi alla guida di una coalizione democratica. I tempi sono maturi per un premier donna?
“Siamo già in ritardo. Pensare a un premier donna e a una squadra di governo composta da donne valide non è un’anomalia, non è una scelta dettata dall’emergenza. Sarebbe una svolta, una risposta all’esigenza di novità e di cambiamento che è arrivata in queste settimane”.
Lei fu la prima donna nel Pdl a ribellarsi a Berlusconi. Al punto che il Cavaliere ordinò: “Levatemela di torno”. C’è una difficoltà tutta al femminile di lavorare con questo premier?
“Sì, sono stata considerata molto “disubbidiente” perché ho esposto il mio punto di vista indicando gli effetti rovinosi di alcuni provvedimenti fortemente voluti dal premier. Nel Pdl nessuno lo contraddice, anche quando è evidente che sta commettendo un errore. “La penso come te, ma non si può dire,” mi sussurrava qualcuno. Ecco, secondo me l’accondiscendenza non aiuta. Quando ritenevo che fosse giusto farlo, io ho sempre contraddetto i miei maestri e i miei leader, e questo non significa che non li stimassi o che non mi fidassi di loro. Sicuramente poi, nel caso del Pdl, il fatto che le obiezioni venissero da una donna le rendeva addirittura impensabili, prima ancora che indigeste. Ma il maschilismo è trasversale: quando ho cercato di portare avanti il provvedimento che avrebbe permesso alle madri di dare il proprio cognome al figlio, ho sbattuto contro un muro eretto dagli uomini dei diversi schieramenti. Il provvedimento infatti si è arenato”.
Cosa dice alle sue colleghe del Pdl che ancora oggi difendono a spada tratta il premier?
“La difesa del proprio leader non deve tradursi in atti di autolesionismo. Secondo me, oggi tacere significa essere complici”.
Lei è stata l’avvocato di Giulio Andreotti: cosa consiglia all’imputato Berlusconi?
“Berlusconi ha i suoi avvocati, non ho nessun consiglio da dare. C’è chi dice che a conti fatti Andreotti ci ha rimesso a non sottrarsi al processo, avrebbe potuto conservare il suo potere ancora a lungo. Mi limito a un sola osservazione: un uomo delle istituzioni le istituzioni deve rispettarle sempre. Altrimenti contraddice se stesso”.
Andreotti, però, non era più a Palazzo Chigi. Qui c’è un presidente del Consiglio imputato per concussione e prostituzione minorile, tutto il mondo ne parla. Può restare al suo posto?
“Non credo che sia questo il punto centrale. Un premier può farsi processare restando in carica, ma ciò che non è accettabile è che un presidente del Consiglio attacchi sistematicamente tutta la magistratura. Questo atteggiamento ha generato un fortissimo conflitto istituzionale. Le dimissioni sono una scelta, ma il rispetto della magistratura e delle procedure è un obbligo. L’imputato presidente del Consiglio deve tenere presente che gli imputati comuni di fronte a questi atteggiamenti potrebbero sentirsi legittimati a emularlo”.
Non è questa la strada scelta da Berlusconi, per ora. Si parla di una mozione della maggioranza per strappare il processo a Milano e di una nuova legge sul legittimo sospetto…
“Non so quale possa essere la strada. Ma non può essere quella delle scorciatoie: se Berlusconi vuole continuare a fare il premier deve affrontare il processo a viso aperto e dimostrare nel dibattimento l’infondatezza delle accuse e la sua innocenza”.
Lei si è opposta ad alcune leggi del governo Berlusconi in materia di giustizia: in quali la forzatura ad personam era più evidente?
“Mentre provvedimenti come il lodo Alfano – molto contestato dalle opposizioni – possono avere una ratio nell’esigenza di tutelare una funzione e non creano effetti negativi sulla collettività, altri avrebbero avuto conseguenze devastanti sul sistema. Una delle prime formulazioni del testo sulle intercettazioni avrebbe messo il bavaglio alla stampa: forse è stato questo il provvedimento in cui ho ravvisato i maggiori pericoli anche per la libertà”.
A dire di Berlusconi, c’era un patto segreto tra l’Anm e Fini per bloccare le leggi sulla giustizia in cambio di una non specificata impunità.
“Escludo qualsiasi patto di questo genere, e non solo perché Fini – non avendo alcun processo – non ne avrebbe avuto alcun bisogno. Questa accusa mi fa ridere: sono stata io a dare i consigli a Fini sulla giustizia, so perfettamente da cosa erano dettate le sue scelte: esclusivamente dalla volontà di non sconquassare il sistema”.
Sul processo breve sono in arrivo altri strappi?
“La riduzione dei tempi dei processi è un imperativo, ma quello che viene definito “il processo breve” i processi non li abbrevia: li cancella. Sulle intercettazioni, quello che non si dice è che dopo lunghi dibattiti era stato portato in aula un testo sul quale c’era l’ok di Alfano. Io stessa avevo partecipato alle ultime trattative. Ma se c’era l’accordo, perché adesso questa marcia indietro?”.
Cosa ha pensato quando ha saputo che Berlusconi sarà giudicato da tre donne?
“La saggezza di un giudice non dipende dal suo sesso. E comunque, dato che in questi giorni Berlusconi ha detto di avere la massima considerazione delle donne, non potrà che esserne felice”.
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