PER RIPRENDERCI LA NOSTRA DIGNITA'

giovedì 7 aprile 2011

7 APRILE: RASSEGNA STAMPA

Comitato nazionale Se non ora quando?

Il comitato nazionale Se non ora quando? aderisce alla manifestazione Il nostro tempo è adesso indetta sabato 9 aprile in tutta Italia per sostenere la protesta delle giovani e dei giovani precari, delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi, delle studentesse e degli studenti senza lavoro, sottopagati o costretti al lavoro invisibile e gratuito.
Vogliamo un paese che rispetti le donne, oggi penalizzate persino più degli uomini dalla precarietà delle condizioni di lavoro: in piena continuità con i temi espressi dall’appello del 13 febbraio e con le proposte avanzate in occasione dell’8 marzo, invitiamo perciò donne e uomini dentro e fuori dai comitati locali a scendere in piazza a fianco delle precarie e dei precari d’Italia.
Il nostro tempo è adesso: la vita non aspetta.
Il comitato nazionale Se non ora quando?


Dopo la grande manifestazione del 13/2 il Comitato “Se non ora quando” modenese presenta il suo programma

Dopo la grande mobilitazione del 13 febbraio il Comitato modenese “Se non ora quando”, rafforzando le motivazioni che già avevano spinto 1 milione di persone in tutta Italia a scendere in piazza, lancia una nuova forma di mobilitazione, quella della “piazza permanentemente convocata”.
“Contro i sistematici attacchi sferrati alle donne (dalle volgarità alle barzellette fino alla compravendita nei palazzi del potere) continueremo a farci sentire in una mobilitazione permanente” promettono le promotrici che invitano ogni comitato (sono più di 250 ) presente sul territorio nazionale a fare altrettanto. L’intenzione è quella di non disperdere le energie e l’indignazione che ci ha messo in marcia – aggiungono le donne – e tenere fermo l’obiettivo del 13 febbraio, ovvero contrastare una cultura machista e umiliante che offende le donne e il paese chiedendo le dimissioni del Presidente del Consiglio che questa cultura incarna”.
Sarà una piazza che si allarga a tutta la provincia e a tutti i luoghi. Tutti coloro che vorranno simbolicamente testimoniare la loro adesione potranno farlo indossando una spilla, un nastro, o attaccando un adesivo all’auto, alla bicicletta, al computer in ufficio, all’agenda del lavoro o alla borsa della spesa.
“Pensiamo che le 5.000 persone in piazza il 13 febbraio potrebbero con questa formula anche raddoppiare (in quanti avrebbero voluto esserci e non ci sono riusciti?)”. Una forma tipica dell’agire multitasking femminile: si sarà in piazza mentre si starà al lavoro, in palestra, a casa, al supermercato.
Per un mese a partire dal’8 aprile il presidio fissa un appuntamento settimanale in via Emilia Centro (Portico del Collegio) per informare cittadini e cittadine sui motivi della mobilitazione, per raccogliere nuove adesioni e distribuire i gadget a chi vuole farsi portavoce della protesta.
Il primo appuntamento è fissato per venerdì 8 aprile dalle 16.30 – 18.30 sotto ai portici del Collegio San Carlo. Si replica i venerdì successivi (15,22,29 aprile).
“Intendiamo nei prossimi mesi insistere anche a livello locale su tre temi di primaria importanza raccogliendo lo stimolo del comitato nazionale: lavoro, maternità e informazione – spiegano le donne – e chiederemo al più presto un incontro con i parlamentari e le parlamentari modenesi per avanzare proposte concrete”.
Resta inoltre urgente per il Comitato puntare sulla rappresentanza di genere e farsi promotore di un percorso culturale che garantisca una presenza più consistente all’interno della classe dirigente, nei partiti, nei cda delle aziende, ai vertici delle istituzioni culturali e dei media.
Per nuove adesioni mandare una mail a senonoraquandomodena@gmail.com. Per ulteriori informazioni www.senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com

Precari in piazza il 9 aprile: perché "la vita non aspetta"

"Non voglio pensare che per avere un futuro degno devo espatriare", "Laureato e stagista. Con rimborso spese che non rimborsa le spese". In Rete le voci della mobilitazione nata online, e che conta sostenitori come Moni Ovadia e il cast di Boris. VIDEO

06 aprile, 2011
di Giulia Floris

"Ho due figlie di 24 e 18 anni. Serve altro?", "Sono precaria da 11 anni, ho 40 anni e il mio tempo è già al giro di boa...", "Non mi voglio arrendere all'idea che per avere un futuro degno devo espatriare", "Sono stufo di aziende che propongono stage gratuiti a neolaureati”. E ancora, "Sono stanca di sospirare", "Operaio sottopagato, famiglia monoreddito, compagna senza lavoro da più di 2 anni, licenziata perché mamma", "Laureato e stagista. Con rimborso spese che non rimborsa le spese", "Più libero che professionista, 34 anni e la moglie precaria".
Perché scendere in piazza il 9 aprile, perché aderire alla Giornata di Mobilitazione Nazionale dei precari: 'Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta'. Provano a spiegarlo, in una riga, i tanti precari dei settori più disparati che hanno aderito all’iniziativa sul sito del movimento.

Convocata su internet, la mobilitazione ha raccolto migliaia di adesioni e conterà presidi e manifestazioni in tutte le città di Italia. Tante le associazioni che hanno aderito, dalla Cgil, al comitato 'Se non ora quando' promotore delle manifestazioni per la dignità delle donne del 13 febbario, dal network delle associazioni studentesche la Rete della conoscenza, all'Arci, ad Articolo 21.
Tra i promotori, si trovano precari "per tutti i gusti": giovani ricercatori universitari, avvocati praticanti, giornalisti freelance, operatori di call center. Giovani, stanchi, esasperati, ma che non perdono l'ironia e che, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell'iniziativa, hanno inscenato un singolare Centro per l'Impiego, dal nome "Chi non lavora non fa l'amore".
Tra gli annunci di lavoro, surreali ma non troppo, preparati per l'occasione: "Cercasi prestanti braccianti per raccolta ortofrutticola. Ore 5.00 - 18.15 con pausa caffè 15 minuti. Retribuzione garantita di 39 centesimi all'ora. Benefit: splendide albe, pulmino aziendale, abbronzatura assicurata, possibilità alloggio open air". Oppure: "Corso per lavapiatti in struttura alberghiera, vitto e alloggio a spese del partecipante".
Nello stesso Centro per l'impiego sui generis, è stato allestito anche l'Ufficio per gli alloggi "A casa di cane". Tra le proposte per venire incontro alle "esigenze di flessibilità e dinamismo dei giovani", la possibilità di prendere in affitto delle "case low cost” costituite da tende da campeggio e kit che comprendono, tra l'altro, la mappa dei luoghi in cui il camping è autorizzato nella città di Roma e un k-way.
Pensata per rispondere ai bisogni del giovane precario infine la "banca del tempo precario e sentimentale": "un ufficio preposto a facilitare gli incontri fra ragazzi e ragazze le cui condizioni di precarietà non li aiutano a costruirsi delle relazioni sentimentali".











Le piazze del 9 aprile

Giovedì 24 Marzo 2011 17:43
Il 9 aprile sarà una grande giornata di mobilitazione in cui finalmente noi precari, disoccupati, lavoratori autonomi, studenti, noi giovani senza diritti scenderemo in piazza per manifestare, uniti, la nostra esistenza, per rivendicare i diritti che oggi ci sono negati, per far sentire la nostra voce e raccontare chi siamo, perché vogliamo un altro paese, un paese che investa sulla ricerca e sulle giovani generazioni invece di relegarle ai margini del sistema produttivo, mortificandone le competenze e cancellando ogni possibilità di realizzazione personale.
Per fare questo dovremo essere in tanti e dovremo essere ovunque.
Non una sola grande manifestazione a Roma, ma centinaia di piazze in tutta Italia
da cui gridare la nostra esistenza e il nostro desiderio non più rinviabile di vivere la vita.
I primi appuntamenti (con link evento fb...condividete e invitate!):


PIEMONTE
- NOVARA Piazza Matteotti ore 15:00
- CUNEO Piazza Audifredi ore 15:00
- ASTI  Piazza Statuto ore 15:30-17:30

LIGURIA

LOMBARDIA
- LECCO Piazza XX Settembre ore 14:30
- LODI Piazza Vittoria ore 15:00
- MANTOVA Piazza Mantegna ore 16:00
- MONZA Piazza Carducci ore 14:30

FRIULI VENEZIA GIULIA

VENETO
- VENEZIA Mestre Piazza Ferretto ore 14:00
- ROVIGO Piazza Vittorio Emanuele ore 17:00
- TREVISO Piazzetta Aldo Moro (Piazza dei Signori) ore 14:00

EMILIA ROMAGNA
BOLOGNA Piazza S. Francesco ore 17:00 corteo e concerto

TOSCANA
- PISA Piazza Garibaldi ore 17:00


ABRUZZO

MARCHE

BASILICATA

PUGLIA
- TARANTO Piazza Roma - Via del Faro 44 (San Vito Taranto) iniziativa e dibattito dalle 16:00 in poi
- BRINDISI corso Leonardo Leo (San Vito dei Normanni), ore 17:00

CALABRIA
- COSENZA Piazza XI Settembre ore 16:00

SICILIA
- POZZALLO (RG) Piazza Municipio ore 19:00

SARDEGNA
- CAGLIARI - 8 APRILE - Facoltà di Architettura Tavola Rotonda e concerto

ESTERO

Stanno nascendo comitati in molte altre città, c'è bisogno dell'aiuto di tutti affinché il 9 sia una grande giornata: contribuite partecipando ai comitati locali e laddove non ci sono a costruirne di nuovi.
Vi aggiorneremo presto sulle altre iniziative in programma.

Contattateci:

Per Roma e per le altre città  info@ilnostrotempoeadesso.it

Le donne buone
e quelle cattive
di Silvia Ballestra

INTERVENTO. Ci si aspettava gli attacchi da destra alla manifestazione “Se non ora, quando?”. Ma non dalle cosiddette femministe storiche come Luisa Muraro e Maria Nadotti, Laura Lepetit e Marina Terragni. L’accusa di bigottismo è infondata, non bisogna temere che i giudizi vengano strumentalizzati. C’è quotidianamente la possibiltà di scegliere che strada seguire.


Son poche donne sono rimaste amareggiate dalla presa di posizione di molte delle cosiddette femministe storiche verso la manifestazione del 13 febbraio. Prima di tutte, probabilmente, le organizzatrici delle piazze del “Se non ora, quando?”. E non perché si volesse una sorta di benedizione-legittimazione da parte della vecchia guardia: semplicemente, ci si aspettava di non essere attaccate. Se non aiutate (e il lavoro, per portare in piazza e accogliere allegramente centinaia di migliaia di persone, non è stato uno scherzo: tempo, contatti, energie, sottratti ai già numerosi impegni di ciascuna), magari non boicottate. E, invece, nei giorni precedenti la manifestazione, abbiamo assistito a un moltiplicarsi di distinguo, contrarietà, sarcasmi, dispiaceri vari.
In ordine sparso: il timore di andare «per conto di qualcuno» espresso da Luisa Muraro, le pulci fatte all’appello per la mobilitazione da Maria Nadotti, gli scuotimenti di capo di fronte alle sciarpe bianche di Laura Lepetit, il riposizionamento clamoroso (a manifestazione avvenuta o un attimo prima) di Marina Terragni e vari altri distinguo ancora.
Oltre ai prevedibili attacchi provenienti da destra e dai fiancheggiatori del Sultano, a sorpresa abbiamo visto riprendere gli stessi argomenti da donne apparentemente distantissime da quella parte politica: l’accusa di bigottismo, il timore di essere strumentalizzate, la divisione buone/cattive, la difesa d’ufficio della prostituzione sono stati spesi a piene mani sia dai Giuliani Ferrara & Co., sia da molte femministe, in rete o interpellate da alcuni quotidiani.
Vale dunque la pena tornare a riflettere su questi malintesi per non prestarsi a essere divise – qui sì, donne contro donne – da chi, in un momento di grande debolezza, è alla ricerca disperata di appigli e crepe.
L'accusa di bigottismo: chiedere di avere un’immagine della donna in tv e pubblicità meno ovvia e pecoreccia, meno disponibile e mercificata, meno – guarda caso – conforme ai fumettistici desideri da grado zero di certo erotismo maschile, significa essere bigotte? Chiedere di fare carriera per merito e non per favori sessuali è bigottismo? Denunciare le scorciatoie offerte alle donne è moralismo? O non è, piuttosto, autodifesa? Come mai i più giovani il moralismo non ce lo vedono e capiscono al volo, invece, di cosa si parla quando li si considera target, obiettivi di pubblicitari e autori di deleteri programmi tv diretti proprio a loro in quanto consumatori? Dire che trasmissioni come La pupa e il secchione fanno schifo e pietà sin dal titolo, significa essere bigotti? Moralisti? O non, più semplicemente, stufi di mistificazioni autoritarie e stucchevoli? Come ci ricorda saggiamente Bianca Beccalli sul Corriere, anche negli anni settanta si combattevano la donna oggetto e la mercificazione del corpo: “le femministe bruciavano i reggiseni, attaccavano i negozi di biancheria intima, non si depilavano”. Pensiamo per un attimo a come sarebbero rubricate oggi simili azioni: bacchettonismo molesto? Moralismo militante? O hanno ragione le ragazze di via Olgettina quando commentano al telefono gli acquisti di biancheria intima compiacendosi: «Più troie siamo più ci vuole bene»?
Il timore di strumentalizzazione: mi rendo conto che è seccante (è successo anche a me, in questi anni) vedere argomenti e riflessioni a lungo snobbate dai grandi media, riprese e sviluppate da chi non ti ha mai degnato d’attenzione, solo sull’onda dello scandalo sessuale di Berlusconi. È questo un buon motivo per impuntarsi, rinnegare le proprie battaglie sul tema, ritirarsi sdegnate? O non sarà l’occasione per usare proprio questa apertura di spazi e attenzione per far passare – assieme agli argomenti più facili e scorrevoli e familiari ed evidenti (il velinismo, le candidature dopate) – anche argomenti più ostici e complicati (il precariato, la crisi pagata dalle donne, gli attacchi all’autodeterminazione)? A tratti sembra che le femministe della vecchia guardia, chiamiamole così, si arrocchino nella difesa di un’egemonia ormai arrugginita, confinata in circoli e piccoli cenacoli autoreferenziali che rinchiudono un grande dibattito in un piccolo ghetto elitario e respingente. Le loro battaglie combattute da altre? I loro argomenti rinfrescati e agitati? Sacrilegio! Una posizione un po’ «dopo di noi il diluvio» che sembra oggi soltanto la rivendicazione di una primogenitura (grazie, brave) insieme al timore di essere scavalcate (o noi o niente).
La divisione buone/cattive, altro argomento strumentalmente cavalcato dai giornali del boss e da tante donne di destra. Insieme ad altre, sono stata accusata (io!) di indire una crociata, una nuova «caccia alle streghe» per aver chiesto le dimissioni di Nicole Minetti dal consiglio regionale della Lombardia. Da quando chiedere le dimissioni di qualcuno equivale a dare la caccia alle streghe? Mi si dice: dividete le donne in buone e cattive e questo non si fa. Sarà.
Peccato che personalmente passo la giornata a esercitare la mia libertà di giudizio e scegliere i comportamenti che ritengo più consoni, coerenti, limpidi, sia degli uomini che delle donne. Perché, solo per appartenenza di genere, una donna dovrebbe essere esente da critica? Dove sta scritto? Chi l’ha deciso, per me, in nome di una sorellanza purché sia, decisamente superata dagli eventi? Perché dovremmo rassegnarci a vedere ridotti i nostri spazi – essendo lo spazio pubblico costantemente occupato da donne caricaturali sbattute in heavy rotation in una televisione che non ha eguali nel resto dell’Occidente – e non rivendicare, anche solo per un giorno, per una piazza, la visibilità di donne alternative al modello di donna berlusconiana? Dire esisto anch’io e non sono quella roba lì significa attaccare altre donne?
Mi tengo la mia perplessità, e pure l’idea che la signorina Minetti occupi abusivamente una posizione di potere ben retribuita per i meriti che sappiamo.
Quanto alla prostituzione. Benissimo le riflessioni e le analisi d’antan, ma qui siamo di fronte a una diversa e ambigua interpretazione della prostituzione marcata già dal termine: escort. Non si tratta delle ragazze di strada ostaggio del racket, delle schiave del sesso, delle prostitute per necessità. Qui abbiamo delle ragazze che non hanno voglia di tribolare per un lavoro più difficile, per percorsi più accidentati, che si ripetono tra loro al telefono che «un cristiano normale deve lavorare sei mesi per prendere quello che ho preso io». Queste ragazze sono arrampicatrici sociali, molte di loro si dichiarano berlusconiane dalla nascita (qualcuna da tre generazioni!), perfettamente conseguenti alla ideologia del Capo a cui si consegnano anima e corpo, per la maggior parte niente affatto indigenti, capaci di comprarsi – coi soldi delle ricche buste elargite dal ragionier Spinelli – sino a venticinque paia di scarpe in un pomeriggio. Dovremmo provare solidarietà? Considerarle vittime? Ammirarle per il loro spirito imprenditoriale come ci invita, comicamente, a fare qualche uomo liberista scopertosi improvvisamente estimatore delle fortune su cui sedersi come Piero Ostellino, che di queste questioni è diventato l’ineffabile macchietta liberale? Dobbiamo dispiacerci per le carriere stroncate dal coinvolgimento nello scandalo? E di che carriere parliamo? Le solite. O nelle tv del Capo, o nella tv pubblica controllata dal Capo, o nei listini bloccati del Capo (e con stipendi da capogiro poi pagati dalle tasse di noi cittadini).
Tutte queste posizioni e sottili distinguo hanno naturalmente diritto di cittadinanza nel dibattito vivace, e per fortuna infinito, sulla condizione della donna. Ma la loro concomitanza con una grande manifestazione, il loro sapiente sfruttamento da parte della propaganda del padrone le ha trasformate, nei fatti, in un elemento di rottura, in un attacco frontale alle donne che sono invece scese in piazza, tante e volentieri, il 13 febbraio. L’accusa di “farsi strumentalizzare” è dunque risibile: possibile che non si siano sentite strumentalizzate dai Belpietro e dai Sallusti di turno le vecchie militanti, proprio loro così argute e scafate?
La richiesta di dignità, molto citata nella fortunata manifestazione del 13 febbraio passa anche per la denuncia di comportamenti poco dignitosi, che siano maschili o femminili. Streghe, qui, non ce ne sono, non c’è il bene e non c’è il male, non c’è il buono e non c’è il cattivo. C’è chi chiede dignità e chi se la vende per buste di contanti. Mi pare semplice.

Brano tratto dal numero 130 de Lo straniero, diretto da Goffredo Fofi, Contrasto editore.

GIOVANI ITALIANI ALL'ESTERO - BELGIO - DAL PD BRUXELLES:"ITALIANI PRECARI STAGISTI E RICERCATORI IN PIAZZA A BRUXELLES PER PROTESTARE CON IL COMITATO "IL NOSTRO TEMPO E' ADESSO"

(2011-04-06)
  Arriva anche a Bruxelles la manifestazione "il nostro tempo è adesso!". Lo annuncia il circolo PD di Bruxelles che informa della manifestazione che si terrà il 9 aprile alla Bourse dalle 14.30 alle 16.30, allorchè  scenderanno in piazza i giovani precari, stagisti, ricercatori, professionisti.

L'iniziativa -fa presente la nota - è partita dal comitato "Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta" che ha lanciato un appello alla mobilitazione che ha subito riscosso un grande successo in tutta Italia e non solo.

Il PD Bruxelles aderisce alla manifestazione e invita i connazionali ad unirsi ai tanti Italiani che vogliono un paese non più schiavo di rendite, raccomandazioni e clientele, che permetta a tutti di studiare, di lavorare, di inventare.

Sull'onda della manifestazione "Se non ora quando?  E per la dignità delle donne" non ci saranno bandiere di partito- avverte la nota, precisando "Non è una manifestazione di parte, ma di una generazione intera senza lavoro o costretta al lavoro invisibile e gratuito, una generazione precaria".(06/04/2011-ITL/ITNET)


Al Consiglio provinciale di Napoli una tavola rotonda sulle donne



Ieri pomeriggio, martedì 5 aprile  alle 16.00, presso la Sala del Consiglio Provinciale di Napoli, in via Santa Maria la Nova 43, si è tenuta una tavola rotonda sulla questione femminile in genere, ma con uno sguardo attento alla situazione sociale che le donne si trovano a vivere ogni giorno in Campania, soprattutto nella città di Napoli. “Dialettiche di genere: un confronto plurale sulla questione femminile”, questo il titolo dell’incontro organizzato per l’occasione dall’associazione politico-culturale ”Campo Libero” che ha deciso di scendere nuovamente in campo dopo appena tre mesi dalla nazionale iniziativa “Se non ora, quando?” che il 13 febbraio scorso ha visto scendere in protesta per le strade le donne di tutta Italia.
Sono segnali forti, simbologia di un progresso sociale che resta impantanato sul versante femminile, in una realtà e in un contesto cittadino che lascia poco spazio e soprattutto poca tutela alle donne, che pure hanno dovuto sempre dimostrare ai bravi maschietti, di essere pari merito capaci e, diciamocela tutta, a volte anche di più. Fidanzate, mamme, mogli, donne in carriera divise fra universi paralleli e la voglia e il dovere di farcela a tutti costi, scalando le montagne del quotidiano.
La questione femminile in Campania è, forse, più accesa che nelle altre regioni italiane ed europee: il tasso di occupazione delle donne campane è pari solo al 28%, una miseria se si considera il 63,9% medio dell’Italia o il 75,8% dell’Unione Europea. E ancora: asili nido del tutto inesistenti (solo il 3% in tutta la città), nessun tipo di aiuto o sostegno alle donne che lavorano o che vorrebbero lavorare, ma non sanno come fare con i propri figli: dati allarmanti, soprattutto se si pensa che viviamo nel 2011 in un Paese che si definisce avanzato e civile.
torino se non ora quando 01 610x381 Al Consiglio provinciale di Napoli una tavola rotonda sulle donne
La tavola rotonda è stata introdotta e moderata dalla sociologa Raffaella Palladino dell’associazione Campo Libero. Hanno partecipato all’incontro: Antonella Pezzullo, segretario generale SPI-Cgil Campania; Mario Sgambato, psicologo e psicoterapeuta del centro antiviolenza EVA; Andrea Morniroli, operatore sociale della cooperativa Dedalus; Alessandra Raiola operatrice sociale dell’Agenzia per la promozione dell’impiego; Raffaella Ferrè scrittrice e giornalista; Francesca Ghidini giornalista Rai; Anna Redi attrice e regista. In più ci sono state testimonianze da parte di donne impegnate nei movimenti di sensibilizzazione della politica sui temi dell’ambiente, del lavoro e dei diritti sociali.
Contemporaneamente all’iniziativa, negli spazi antistanti la sala consiliare, la mostra “Se non ora, quando?” di Eliana Esposito, fotoreporter sociale che ha esposto venti fotografie inedite realizzate nel corso della omonima manifestazione nazionale femminile. La mostra itinerante è stata realizzata ed allestita in collaborazione con Fondazione Idis-Città della Scienza.


Alla Camera Ruby e processo breve
e in piazza si manifesta sulla giustizia


Il presidio è iniziato srotolando un'enorme bandiera dell'Italia. Il tricolore da 60 metri, utilizzato già il 12 marzo per il Costituzione Day, è stato disteso a terra tra gli applausi delle centinaia di manifestanti e gli slogan "Fuori la mafia dallo Stato; fuori lo Stato dalla mafia". E in serata la Notte bianca per la democrazia


Alla Camera Ruby e processo breve e in piazza si manifesta sulla giustizia Di Pietro a piazza Montecitorio con i manifestanti

Popolo viola, Articolo 21 e Libertà e giustizia portano oggi in piazza il Democrazia day, l'iniziativa lanciata nei giorni scorsi per protestare contro l'odg in discussione alla Camera, su processo breve, prescrizione abbreviata, responsabilità civile dei magistrati e il voto sul conflitto di attribuzione sul caso Ruby. E in serata la Notte bianca per la democrazia.

Il presidio è iniziato srotolando un'enorme bandiera dell'Italia. Il tricolore da 60 metri, utilizzato già il 12 marzo per il Costituzione Day, è stato disteso a terra tra gli applausi delle centinaia di manifestanti e gli slogan "Fuori la mafia dallo Stato; fuori lo Stato dalla mafia". "Questa piazza è la dimostrazione che solo uniti si riescono a fare le cose - ha commentato Gianfranco Mascia dei Viola - i cittadini non ce la fanno più. Vogliamo cambiare il Paese e questo sarà possibile se l'opposizione farà il suo lavoro come i cittadini lo faranno nelle piazze".

Intanto, a pochi minuti dall'inizio della seduta, piazza Montecitorio si va riempiendo. Dietro le transenne cominciano ad assieparsi i manifestanti, controllati dai carabinieri, che sono dislocati anche lungo il perimetro della piazza di fronte all'accesso principale della Camera.

Mercoledì scorso l'apparato di sicurezza venne messo sotto accusa dall'opposizione, che non mancò di sottolineare il fatto che, malgrado il Pd e il Popolo Viola avessero annunciato già dalla mattina la convocazione di un presidio di protesa davanti a Montecitorio, ai manifestanti venne inspiegabilmente concesso di avanzare fino a pochi passi dal portone della Camera. Governo e maggioranza, attaccarono sia il Pd sia i manifestanti del Popolo Viola, accusandoli di aver deliberatamente cercato lo scontro.
Dopo il sit-in e la maratona oratoria del Popolo Viola davanti a Montecitorio, alle 18 la protesta si è spostata a piazza del Pantheon dove il Partito Democratico ha dato appuntamento ai propri militanti. Sul palco il segretario Pierluigi Bersani e la senatrice Anna Finocchiaro. Il segretario ha ribadito, dopo il voto di oggi pomeriggio, che l'opposizione continuerà giorno per giorno: "Per dirla con Vasco Rossi - ha esordito - noi siamo ancora qua". La senatrice Finocchiaro ha invece sottolineato come Berlusconi, pur riuscendo ad ottenere un voto favorevole sul conflitto di attribuzione, sia ancora lontano da quei 330 deputati su cui dice di poter contare: "Si tratta di un risultato - ha concluso la Finocchiaro - che sta tentando di raggiungere a tutti i costi". Ogni riferimento a compravendite last minute è puramente voluto. Da Montecitorio è arrivato al Pantheon anche il Popolo Viola, sventolando un enorme tricolore e cantando l'Inno di Mameli. "Unità, unità", questa la parola d'ordine della piazza.


Dalle 20 in poi, l'iniziativa alla quale hanno aderito Articolo 21 e Libertà e Giustizia, Move On Italiano, Antonio Di Pietro e l'Idv, oltre a diversi parlamentari Pd e Fli, si trasferirà in piazza Sant'Apostoli dove parleranno rappresentati della società civile, dei partiti, del mondo delle associazioni. Sul palco saliranno anche Di Pietro, Rosy Bindi e Fabio Granata. Molti gli artisti e i rappresentanti del mondo della cultura che presenzieranno alla 'Notte bianca per la democrazia': Giobbe Covatta, Moni Ovadia, Giuliano Montaldo, Dario Vergassola, Massimo Ghini e la Tavola della Pace.

La Nato accusa Gheddafi: "Usate scudi umani"


Il vicecomandante delle operazioni Nato Russ Harding fa il punto della situazione: "Capacità offensiva del regime ridotta del 30%".


La Nato accusa Gheddafi: "Usate scudi umani"

Accuse dalla Nato

NAPOLI - "La scelta di Italia e Francia di riconoscere le forze ribelli non cambia, in alcun modo, gli obiettivi e l'operatività delle forze Nato in campo. Il nostro fine è proteggere i civili e far rispettare la risoluzione dell'Onu 1973, a prescindere dalle decisioni dei singoli Paesi". A parlare è il contrammiraglio della Royal Navy Russ Harding, vicecomandante delle operazioni Nato in Libia, intervenuto a Napoli al Comando interforze dell'Alleanza atlantica per fare il punto della situazione sull'operazione Unified Protector. "In questo momento riteniamo di aver ridotto di almeno il 30% la capacità offensiva libica - ha spiegato Harding -, e abbiamo contestualmente diminuito di molto la loro capacità offensiva grazie a mirati raid aerei. Il nostro mandato, comunque, è chiaro: mettere in campo azioni che impediscano minacce alla popolazione. Per far ciò abbiamo sia risorse materiali sul campo che la partecipazioni di Nazioni esterne alla Nato, che stanno contribuendo a tale sforzo".

LA NATO ACCUSA: "USATE SCUDI UMANI". Nelle scorse ore, tuttavia, i comandati dei ribelli hanno dichiarato che al momento le forze impiegate dall'Alleanza atlantica non starebbero facendo di tutto per sconfiggere o, quanto meno, limitare le azioni dell'esercito libico ancora fedele al colonnello Muammar Gheddafi. "Il nostro compito è quello di proteggere la popolazione - ha ribadito l'alto ufficiale britannico -. Tuttavia in queste ore le forze del colonnello stanno facendo ricorso anche a scudi umani per evitare attacchi da parte delle forze alleate. Dal canto nostro noi non possiamo sganciare alcun tipo di ordigno su civili, perché ovviamente vogliamo evitare ogni possibile vittima civile. In ogni caso - ha concluso Harding -, operando sotto l'egida delle Nazioni unite non abbiamo la necessità di guadagnarci il consenso di questa o quella parte".

ANCHE PAESI ESTERNI ALLA NATO. Il contrammiraglio della Nato ha poi specificato che all'abbandono del teatro operativo da parte dell'aviazione militare americana, avvenuto nelle scorse ore, ha corrisposto il graduale intervento in zona operativa delle forze aeree che fanno parte della coalizione internazionale, come i sei F16 messi a disposizione dalla Giordania. I problemi, in ogni caso, continuano a riguardare la parte meridionale del Paese libico. I maggiori sforzi diplomatici si starebbero concentrando sui Paesi membri dell'Unione africana, al fine di prevenire l'introduzione in Libia di mercenari e, soprattutto, armi altamente sofisticate. Al momento, tuttavia, l'operatività della Nato su questo versante è estremamente limitata, visto che la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite vieta alle truppe di terra del Patto di intervenire direttamente nel paese africano.

LA GUERRA NEL SUD ITALIA DEI SOTTOMARINI NUCLEARI USA

Culture(07/04/2011) -

Sono lo strumento di distruzione più micidiale della coalizione internazionale in guerra contro Gheddafi. Hanno sganciato centinaia di missili “Tomahawk” all’uranio impoverito, spargendo polveri radioattive nelle città e nei villaggi della Libia. Transitano in immersione nei mari del sud Italia, attraversando i corridoi marittimi più trafficati come lo stretto di Messina. Per le loro soste scelgono le popolatissime baie ai piedi di due vulcani, l’Etna e il Vesuvio, accanto a depositi di carburante e munizioni, raffinerie e industrie chimiche. Si tratta dei sottomarini a propulsione nucleare della marina militare USA, impianti antiquati e pericolosi tipo “centrale Chernobyl”, con l’aggravante che se ne vanno a spasso liberi per i nostri mari. Uno di essi è approdato il 4 aprile ad Augusta (Siracusa), in un’area ad altissimo rischio ambientale, sede di un’importante base della Marina militare italiana e del principale polo navale delle forze USA e NATO nel Mediterraneo.

L’arrivo del sottomarino è stato comunicato dalla Capitaneria di Porto della cittadina siciliana. “Visto il vigente piano di emergenza e le norme per la sosta di unità militari a propulsione non convenzionale nel porto di Augusta - si legge nell’ordinanza firmata dal comandante Francesco Frisone - è fatto divieto a tutte le unità navali non specificatamente autorizzate di avvicinarsi, transitare o sostare ad una distanza inferiore a 1.000 metri dalla unità a propulsione non convenzionale posta alla fonda nel punto di latitudine 37° 10′ 18”N e longitudine 015° 14′ 36”E”. Durante le manovre di ingresso e uscita dell’unità militare è stato pure sospeso il traffico mercantile nel golfo di Augusta. Con la guerra la Sicilia è sempre più a sovranità limitata: il più grande porto industriale dell’isola è dichiarato off limits per consentire le spericolate manovre dei sottomarini atomici, l’aeroporto di Trapani-Birgi viene chiuso al traffico civile, l’uso dello spazio aereo di Catania-Fontanarossa viene limitato per non disturbare le missioni dei caccia e dei velivoli senza pilota della vicina base di Sigonella.

Le autorità italiane hanno mantenuto il più stretto riserbo sul sottomarino in rada ad Augusta. Fonti del Pentagono riferiscono che le unità subacquee dislocate nel Canale di Sicilia per bombardare gli obiettivi militari e civili libici sono tre: l’USS Providence (SSN 719), l’USS Scranton (SSN 756) e l’USS Florida (SSGN 728). Ma all’area operativa della VI flotta è pure assegnato l’USS Newport News (SSN 750). Il Providence ha effettuato una sosta tecnica a Gibilterra dal 24 al 28 marzo e pare improbabile che all’equipaggio sia stata concessa un’altra licenza-premio dalla guerra in nord Africa. È presumibile dunque che il sottomarino nucleare approdato in Sicilia sia lo Scranton (già fotografato nelle acque di Augusta il 6 marzo 2011), il Florida (tra il 3 e il 4 marzo in sosta nel porto di Napoli) o il Newport News, transitato da Napoli, secondo il Comando delle forze navali statunitensi in Europa ed Africa, lo scorso 8 marzo. In tutti e tre i casi c’è assai poco da star tranquilli. Scranton e Newport News (come il Providence) appartengono alla classe “Los Angeles”: realizzati nella prima metà degli anni ’80, sono lunghi 110 metri, pesano 6.184 tonnellate, imbarcano 110 uomini e dispongono di un imponente arsenale di morte (siluri Mk48 ADCAP, missili per attacco a terra “Tomahawk” block 3 SLCM con una gittata di 3.100 km. e missili anti-nave “Harpoon”). La loro spinta è assicurata da un reattore ad acqua pressurizzata S6G, dove la S sta per Submarine platform, il 6 per Sixth generation e la G per General Electric, la società realizzatrice dell’impianto nucleare con una potenza di 165 MW.

Ancora più imponente l’USS Florida, sottomarino della classe “Ohio”: varato nei primi anni ’80, è lungo 170 metri e pesa 18.750 tonnellate, mentre il reattore nucleare è indicato con il codice S8G PWR (di ottava generazione) con una potenza di 26,1 MW. Il suo carburante è l’uranio arricchito nell’isotopo U235, sostituito di norma ogni 7-8 anni invece dei 18 mesi previsti per i reattori degli impianti “civili” di terra. Nel 2003 il Florida è stato convertito da sommergibile con lanciatori di missili nucleari balistici intercontinentali (SSBN) a piattaforma lanciamissili per l’attacco a terra (SSGN), 22 gruppi di lanciatori con 7 missili ciascuno BGM-109 “Tomahawk” TLAM. L’attacco sferrato contro la Libia ha segnato il battesimo di fuoco per le unità SSGN della classe “Ohio”. “Questo nuovo guided missile submarine dispone di un potere dodici volte maggiore dei vecchi sommergibili d’attacco della classe “Los Angeles”, e di gran lunga superiore perfino agli incrociatori lanciamissili”, scrive l’attivista Phil Rushton di Peacelink. “Oltre all’equipaggio composto da 159 uomini, il Florida può imbarcare 60 militari SEAL delle Special Operations Forces (SOF), specializzati in operazioni di incursioni segrete, sabotaggio e intelligence, e che dispongono dei propri mezzi sommergibili per arrivare al bersaglio”. L’unità è pure dotata di un sistema di comunicazione di ultima generazione con antenne “High Data Rate”, che le consente di operare da struttura di comando e coordinamento dell’attacco di più mezzi, organizzati intorno al concetto militare di Small Combatant Joint Command Center (piccolo centro combattente di comando congiunto).

Secondo quanto denunciato nel 2004 dall’allora parlamentare dei Verdi Mauro Bulgarelli, oltre ad Augusta e Napoli ci sarebbero altri nove porti italiani in cui vengono periodicamente ospitati sottomarini o unità navali a propulsione nucleare (Brindisi, Cagliari, Castellamare di Stabia, Gaeta, La Maddalena, La Spezia, Livorno, Taranto e Trieste). “Per motivi di sicurezza e per l’impossibilità delle autorità militari di ottemperare secondo legge alle disposizioni delle autorità civili, in nessuno degli attuali porti italiani è ammissibile la presenza di unità nucleari”, afferma l’ingegnere Massimo Zucchetti, professore ordinario di “Impianti nucleari” presso il Politecnico di Torino. Autore del prezioso studio sull’utilizzo nel conflitto in Libia di missili “Tomahawh” all’uranio impoverito, il professore Zucchetti ha avuto modo di esaminare i cosiddetti “piani di emergenza esterna” relativi alla sosta di unità militari a propulsione nucleare nei porti di La Spezia, Taranto, Gaeta e La Maddalena. “L’elaborazione dei piani e la loro pubblicità è richiesta dalla vigente legislazione civile sulla radioprotezione”, spiega il docente. “È indispensabile una informazione completa sui dettagli tecnici relativi all’impianto per effettuare un’analisi incidentale credibile e stimare adeguatamente il rischio. Nel caso di reattori nucleari a bordo di unità navali militari, molte di queste informazioni mancano o sono insufficienti. Quanto sarebbe necessario acquisire, conoscere, ispezionare ed accertare si scontra molto spesso con il segreto militare. Mancano molte delle informazioni che sarebbe necessario ottenere, oppure sono inottenibili o vengono trasmesse mediante comunicazioni da parte della Marina Militare o addirittura della US Navy, con una modalità di autocertificazione che è inaccettabile nel caso dell’analisi di sicurezza di un impianto nucleare”.

Massimo Zucchetti ricorda inoltre come le normative prevedano intorno ai reattori nucleari un’area in cui non sia presente popolazione civile (la cosiddetta “zona di esclusione”), mentre è richiesta, in una fascia esteriore più ampia, una scarsa densità di popolazione per ridurre le dosi collettive in caso di rilasci radioattivi, sia di routine che incidentali. Normalmente, la fascia di rispetto ha un raggio di 1.000 metri e vi sono requisiti di scarsa densità di popolazione per un raggio di non meno di 10 km dall’impianto. “Nell’ambito della localizzazione e del licensing di reattori nucleari civili terrestri, questi requisiti vengono rispettati nella fase di selezione del sito e dell’installazione della centrale”, spiega Zucchetti. “Cosa del tutto diversa nel caso dei reattori nucleari a bordo di unità navali militari, dato che molti dei porti si trovano in aree metropolitane densamente popolate e i punti di attracco e di fonda delle imbarcazioni sono, in alcuni casi, posti a distanze minime dall’abitato”. “La presenza di reattori nucleari in zone densamente popolate – conclude l’ingegnere - provoca poi, in caso di incidente, evidenti difficoltà di gestione dell’emergenza. Anche in caso di messa in opera di avventurose soluzioni di rimedio, l’impatto ambientale è comunque assai rilevante”. L’orrore di Fukushima è tutt’altro che remoto per milioni di inconsapevoli cittadini italiani.

Antonio Mazzeo 

La mediazione italiana? «È possibile, ma guai a puntare sui figli del raìs»


Quando avevamo parlato l’ultima volta con Najla Abdurrahman – alla fine di febbraio, prima dell’inizio di Odyssey Dawn – ci aveva raccontato la delusione dei ribelli libici per la posizione di Italia e Stati Uniti.
Quaranta giorni dopo il mondo sembra essersi ribaltato più e più volte. Giovanissima dottoranda alla Columbia, americana di origini libiche, Najla è al centro di una rete di attivisti che dagli States cercano di raccogliere notizie sulla situazione in Tripolitania e Cirenaica. Ci racconta gli umori di Bengasi all’indomani della svolta diplomatica dell’Italia.
Come è stata accolta a Bengasi la notizia dell’inversione di rotta del governo italiano?
Con entusiasmo. Tutti coloro che sostengono l’opposizione e il Consiglio nazionale sono grati che finalmente l’Italia si sia decisa: al di là delle difficoltà che ci sono state, la relazione tra Italia e Libia è fondamentale, dal punto di vista sia pratico sia simbolico.
Roma punta a un ruolo di mediazione. Dopo le oscillazioni delle ultime settimane l’Italia può essere un attore credibile?
I libici sono consapevoli che il governo Berlusconi ha avuto stretti legami col regime di Gheddafi, che gli investimenti italiani in Libia sono significativi così come quelli di Gheddafi in Italia. E che anche la vostra opposizione ha avuto legami col regime del Colonnello. Ma – lo ripeto – la mossa del vostro governo è importantissima, anche se solo nei prossimi giorni capiremo quale sarà l’evoluzione dei rapporti tra l’Italia e il Consiglio nazionale libico.
A che tipo di mediazione sarebbero disposti a Bengasi? Accetterebbero un cessate il fuoco?
La tregua è un’arma a doppio taglio. Di certo la gente desidera che si metta fine alle ostilità, ma la volontà dei libici è ferrea su un punto: la fine del regime e l’allontanamento di Gheddafi.
La lotta non avrà fine senza la sua partenza. L’unica soluzione diplomatica che la popolazione potrebbe accettare passa per l’esilio del raìs. Se la “mediazione” portasse alla sua permanenza o a una transizione guidata da uno dei suoi figli, il rifiuto sarebbe netto.
Su Foreign Policy hai scritto un articolo infuocato contro chi sostiene che ci siano infiltrazioni di al Qaeda tra i ribelli. In molti però temono che, con o senza al Qaeda, la Cirenaica diventi terreno di coltura per l’estremismo.
Non c’è nessuna prova concreta di infiltrazioni jihadiste, a parte un articolo del Telegraph secondo cui alcuni militanti che hanno combattuto contro gli americani in Iraq ora sono arruolati tra i ribelli. Il passato di qualche individuo non ha nulla a che vedere con la linea politica del Consiglio e con la volontà della maggioranza del popolo libico. È vero che ad oggi non si conosce l’identità di alcuni dei ribelli, perché tra le loro file c’è grande disorganizzazione. Ma su questa base si stanno costruendo delle esagerazioni. Al Qaeda manca di qualsiasi forma di sostegno popolare. Oltretutto a Gheddafi è stato dato credito per aver limitato il terrorismo in Libia ma non ha fatto nulla di più di quello che qualunque altro governo avrebbe fatto. Il nuovo governo sarà altrettanto capace – se non più capace – di porre un freno a quel tipo di influenze.
Che aspettative ci sono a Bengasi sugli esiti del conflitto?
C’è speranza: la defezione di Moussa Koussa è un fatto enorme. So da amici a Tripoli che molte personalità del regime stanno pensando di seguirlo, nonostante le pressioni del regime. In molti aspettano solo l’occasione giusta per andarsene. La situazione militare invece è preoccupante: se prosegue il balletto tra Ras Lanuf e Brega, nella comunità internazionale crescerà lo scetticismo e l’idea che si tratti di una guerra civile. Di certo c’è già un flusso di armi dall’esterno del paese e qualche missione di addestramento dei ribelli, ma allo stato attuale i ribelli non assomigliano minimamente a un esercito.
Una nave petroliera ha attraccato in Cirenaica per riprendere le esportazioni di petrolio. L’ad di Eni è stato a Bengasi per stringere nuovi rapporti. Quanto ci vorrà prima che la situazione economica torni stabile?
È incredibile quanto rapidamente Bengasi sia tornata alla normalità. Nonostante l’assenza di un governo ufficiale. Il popolo libico sa già come fare a meno di Gheddafi: non è stato lui a tenere insieme il paese per quarant’anni, direi il contrario. Il problema è lui.





Il pericolo del "razzismo al contrario"

Tirare fuori il meglio dai flussi migratori è l'unico modo per sopportarli




di

Transatlantico

6 Aprile 2011

Penso sia evidente che Gheddafi sta usando l’emigrazione come tattica bellica: lo aveva paventato per chiudere l’annoso accordo con l’Italia. Il Governo tunisino la sta invece usando per ottenere i sostegni politici e economici per consolidarsi e avviare le riforme. Legittimo o meno che sia si devono fare i conti con questo aspetto della politica estera del Nordafrica.
In più: la notizia della facilità di sbarco e ingresso in Italia si sta diffondendo e dopo libici e tunisini iniziano gli sbarchi di somali, eritrei cui seguiranno ivoriani, magrebini, sudanesi ecc.. E’ una marea inarrestabile che crea presenze di numero ingestibile.
L’immigrazione che l’Italia sta subendo, non ha nulla in comune con quello del XX secolo perchè allora fu un fenomeno intrarazziale mentre oggi le società occidentali, più o meno a torto, percepiscono gli arrivi come rischio di stravolgimento etnico delle società occidentali. I nuovi migranti provengono dai paesi del c.d. Terzo Mondo, hanno un livello medio di istruzione deficitario, bassa propensione all’integrazione e alta di autoghettizzazione. Di qui il rischio di un razzismo etnico-geografico reciproco tra ospiti e ospitanti come il razzismo religioso del XIX e XX secolo. Rispetto a quelle dello scorso secolo le attuali immigrazioni non avvengono sotto la spinta della domanda occidentale di manodopera (penso all’emigrazione verso gli USA e dopo la guerra a quella intranazionale e intraeuropea del Meridione d’Italia verso i triangoli industriali Genova-Milano-Torino e continentale di Belgio, Germania e Francia) questo fa sì che difficilmente i lavoratori immigrati scelgono di rimpatriare ma neppure di integrarsi con la Comunità che li accoglie. Nella maggior parte dei casi costoro vivono nel ricordo di usanze che pretendono di coltivare anche se incompatibili con i principi del paese che li ospita. Forse pensano che in questo modo possono preservare la loro identità di certo affettano la Società ospite si trova di fronte a comunità chiuse e autoreferenziali che rifiutano il rapporto interrazziale.
Il dubbio è che stia prendendo piede un razzismo al contrario, alimentato dal trasferimento in Occidente del millenario risentimento che quasi tutte le comunità di appartenenza dei migranti nutrono, basato sull’imposizione di usi costumi e culture sulle quali far scivolare le regole della Società occidentale come acqua sul marmo. Questo il dubbio su cui si sta infrangendo il sogno progressista del melting pot globale, l’utopia bohemienne di una società benetton nella quale la ricchezza del Primo mondo sarebbe divenuta la panacea per risolvere i problemi del Terzo.
Degli effetti di una politica di accoglienza senza regole l’Italia era destinata a fare le spese. La sua posizione di molo sud del grande porto UE non ha mai fruttato vantaggi ma solo barzellette acide come quella su Napoli "unica città del nordafrica priva di quartiere europeo"! Ora però ai mancati vantaggi e alla beffa si vanno aggiungendo i danni di una immigrazione dai numeri imponenti. Che scelte egoiste di tutti i partners europei rischiano di esponenziare.
Tra gli effetti della "politica di accoglienza senza regole" imposta dalla Sinistra italiana con la complicità di una DC e un Centro disattenti politicamente e impreparati culturalmente, la Lega Nord è stato il primo a contenuto rappresentativo. La facilità con cui questo movimento si è organizzato e poi radicato sul territorio e la velocità con cui si è trasformato prima in partito di rottura poi di indirizzo del governo dovrebbero suggerire l’esistenza in Italia di un sentire l’immigrazione diverso da quello che la cultura accredita e non di minoranza nel Paese.
Nei mercati rionali, nei negozi di periferia, nei bar, nelle stazioni ferroviarie ovvero ovunque la presenza degli immigrati è quotidiana e consistente i mugugni, le riflessioni ad alta voce e purtroppo anche le offese sono continui. E dove non se ne manifestano - per esempio il sabato sera a Campo dei Fiori o Trastevere a Roma - la spaccatura della nostra società balza agli occhi per gli steccati invisibili ma alti, che separano i crocchi dei ragazzi e ragazze che chiacchierano e bevono da quelli di soli ragazzi e uomini che li osservano e riavvicinano con la necessità e talvolta la scusa e di vendere qualcosa. E’ terribile. Perché, una volta raggiunto un certo equilibrio tra i componenti le due compagini, quei luoghi potrebbero diventare i palcoscenici di confronti sociali destinati a infiammarsi per l’età dei protagonisti.
Chiedere alla UE e ai paesi europei di fare la loro parte è dunque un dovere, non un diritto. Anche perché non abbiamo la cultura dell’ordine pubblico francese; nè le certezze etiche per la politica dei respingimenti della Spagna; né la determinazione efficentista della Germania. Siamo un Popolo ancora diviso su tutto, anche sulla festa dell’Unità d’Italia fissata nel 1861 anzichè nel 1870 per rispetto al Vaticano (almeno così s’è lasciato trapelare) ma per qualcun altro perché il 2020 era troppo in là!
In Italia diversamente da quanto si pensa (e comunque per prudenza vista la capacità che abbiamo di accenderci con cuspidi di violenza che non sappiamo poi fronteggiare) dobbiamo procedere autonomamente a disciplinare l’immigrazione (le legge Bossi-Fini è andata) e fare una scelta culturale prima che sociale e politica generosa ma responsabile e realista. Perché lo scontro tra etnie, ancorchè sopito a livello internazionale, potrebbe esplodere all’interno di singole nazioni, risvegliando l’insofferenza xenofoba.
La nostra Costituzione è stata pensata per una società fondamentalmente monoculturale e i principi di libertà che contiene possono diventare il grimaldello per indebolire lo Stato se invocati dagli immigrati per ottenere il rispetto delle loro culture negli aspetti con essi incompatibili.
Rimanere consapevoli del nostro status privilegiato è doveroso ma non possiamo per ciò solo consentire una asimmetria dei diritti in attuazione della quale gli immigrati sono tutelati non solo più di quanto facciano i paesi di provenienza con gli occidentali residenti ma addirittura più di quanto facciano con i nostri cittadini.
La strada su cui la Società globale incamminata è peraltro one way, perchè l’immigrazione non è arrestabile, dunque tiriamone fuori il meglio con generosità e senza temere accuse di razzismo.

Libia. Ex-deputato Usa a Tripoli per colloqui con Gheddafi



L'ex-deputato Usa Curt Weldon




TRIPOLI, LIBIA - Gli sforzi diplomatici diretti a por  fine alla guerra civile in Libia, ora ad un punto morto, tra i ribelli e le forze del colonnello Muammar Gheddafi, hanno registrato una svolta inattesa mercoledi con l’arrivo a Tripoli per colloqui col Rais dell’ex-deputato americano Curt Weldon, che già nel 2004 aveva incontrato Gheddafi, a quanto informa il Los Angeles Times.

Secondo quanto si è appreso Weldon, un deputato rieletto per 10 volte consecutive al Congresso di Washington e che è stato vice-presidente della Commissione Armamenti, è stato invitato a Tripoli dallo stesso Gheddafi, la cui speranza è ora di raggiungere un accordo con i leader internazionali, incluso il presidente Usa Barack Obama, sulla fine del conflitto che ha diviso la Libia a metà, l’est agli insorti e l’ovest al Rais.

Weldon porta con sè una proposta per azioni simultanee dirette a riportare la pace in Libia. Esse includono un accordo di cessate il fuoco, l’emarginazione di Gheddafi, la formazione di un governo ad interim composto da rappresentanti di entrambe le parti e la convocazione di elezioni sotto la sorveglianza della comunità internazionale.

A latere degli incontri tra Weldon e il Rais, il suo portavoce Mussa Ibrahim ha dichiarato all’emittente televisiva americana WPIX e ad altri giornalisti che la Libia ”è pronta per una soluzione politica” con le potenze mondiali. ”Potremo avere qualunque sistema politico, qualsiasi cambiamento: la costituzione, le elezioni, ogni cosa. Ma – ha precisato riferendosi a Gheddafi – sarà il leader a portare avanti tutto questo”.

Una proposta, quest’ultima, che difficilmente potrà essere accettata dai leader internazionali, che non hanno alcuna intenzione di negoziare con Gheddafi dopo i massacri del suo popolo. La Associated Press riferisce frattanto che anche l’Italia si è unita alla Francia ed al Qatar nel riconoscere i ribeli quali legittimo governo libico.

Abdelati Obeidi è il nuovo ministro degli Esteri di Gheddafi

Ex ambasciatore in Italia. Sta negoziando uscita dalla crisi

Abdelati Obeidi è il nuovo ministro degli Esteri di Gheddafi
Tripoli, 6 apr. (TMNews) - Il vice ministro libico degli Affari europei, Abdelati Obeidi, è stato nominato ministro degli Esteri al posto di Mussa Kussa, che alcuni giorni fa ha deciso di abbandonare il regime e riparare a Londra. "Abdelati Obeidi è il nuovo ministro", ha dichiarato il vice ministro Khaled Kaim. Ex premier (1979-1981) e già capo della diplomazia di Tripoli (1982-1984), Obeidi è stato anche ambasciatore libico in Italia.

Come vice ministro per gli Affari europei, Obeidi negli ultimi anni è stato inviato da Muammar Gheddafi in numerosi paesi per negoziare la normalizzazione delle relazioni tra la Libia e l'Ocidente.

Nei giorni scorsi Obeidi è stato in Occidente per una serie di colloqui su una possibile soluzione negoziata della crisi in Libia.

Li avete uccisi voi. Questi sono i naufraghi dei respingimenti





Li ha uccisi il mare? No. Li hanno uccisi i signori “fora dai ball” e il loro ex-amico dittatore. Li hanno uccisi loro. I profughi eritrei, etiopi, sudanesi, ivoriani partiti da Zuwhara e morti affondati nel più grande cimitero della post-modernità, il Mediterraneo, sono esattamente quelli che il governo italiano ha respinto dal maggio 2009, negando la protezione umanitaria e consegnandoli alle carceri del regime libico.


Provo ad ascoltare il silenzio. Cerco un perché, un dove, un come. Sento il vibrare doloroso del non poter dire. Non oso più credere al senso delle parole. Il rumore del mare è più forte. E` immenso, infinito, non lascia più alcuna via di scampo all`evidenza del tragico.

Che senso ha oggi, di fronte a questa nuova annunciata tragedia, ricordare di averlo previsto? Tutto. In tanti avevamo detto tutto. Raccontato, mostrato, ricordato. Centinaia di volte. Ma perché? Perché, dico io,  abbiamo voluto credere che il potere disumano dei “fora dai ball` davvero potesse ascoltare? Perché abbiamo avuto fiducia nella loro assenza di umanità? Non dovevamo: abbiamo solo alimentato illusioni.

E oggi il silenzio profondo del mare è più forte. Immenso. Ma in questo silenzio rimane ancora un`ultima parola da alzare alta, vibrante e quasi immobile, come la morte: li avete uccisi voi. Non c`è alcun dubbio.

I profughi eritrei, etiopi, sudanesi, ivoriani partiti da Zuwhara e morti affondati nel più grande cimitero della post-modernità, il Mediterraneo, sono esattamente quelli che il governo italiano ha respinto dal maggio 2009, impedendo loro di avere protezione umanitaria e consegnandoli alle carceri e alle violenze del regime libico.

Era dal 2006 che l`Italia aveva notizie chiare e provate di violenze disumane perpetrate dalla polizia libica ai danni dei migranti: deportati in container, detenuti, violentati, privati di qualsiasi diritto e identità. Ma a nulla sono servite quelle notizie per fermare gli accordi con Gheddafi. Lo scopo era uno solo: “fora dai ball`. In centinaia continuavano a cercare la fuga via mare, incontrando spesso la libertà, ma molte volte anche la morte. Rischiavano la morte pur di fuggire: e l`Italia invece di salvarli, li ha definitivamente consegnati al destino libico. In quello stesso mare-cimitero sono iniziati i respingimenti: “state fuggendo dall`inferno rischiando la vita? Noi vi rispediamo all`inferno: fora dai ball`.

Dal maggio 2009 al febbraio 2011 il loro calvario in Libia è diventato assoluto e senza via di scampo. Come corpi di animali in un paese governato da un regime. Poi nel febbraio 2011 quel regime è stato finalmente attaccato dal suo popolo ed è diventato improvvisamente nemico dell`Italia; in questa nuova situazione quei corpi animali si sono trovati in completa balia di una situazione di confusione bellica, minacciati come “mercenari` e privi di alcuna via di fuga. Gli altri stranieri (i lavoratori egiziani, tunisini, cinesi e altri) sono fuggiti dalle frontiere via terra: molti di loro non potevano o perché non ne avevano i mezzi o perché rischiavano la vita ad uscire allo scoperto.  Poche settimane fa al telefono dalla Libia una donna eritrea ce l`aveva raccontato chiaramente: “qui rischiamo la vita; dobbiamo stare in casa e non abbiamo nemmeno il latte per i nostri bambini. Aiutateci.`

L`Italia doveva farlo: la sua responsabilità storica e politica era evidente. Ha iniziato a farlo portando con due voli c130 poco più di 100 eritrei. Ma l`ha fatto in silenzio, per non contrastare le voci potenti dei “fora dai ball`. E presto ha smesso di farlo. Li ha lasciati lì. E ha iniziato a bombardare.

Sotto i bombardamenti il regime di Gheddafi ha iniziato a sfaldarsi e ha deciso di contrattaccare. Usando anche i corpi dei profughi come proiettili umani. Ha deciso di lasciarli passare. Via mare.

Piccole, vecchie barche hanno iniziato a partire dalle spiaggie libiche. Ed in mezzo al Mediterraneo hanno incontrato il loro destino: il mare, l`immenso silenzioso mare.

Li ha uccisi il mare?

No. Li hanno uccisi i signori “fora dai ball` e il loro ex-amico dittatore. Li hanno uccisi loro.

Ma con loro, purtroppo, anche la più tragica condizione umana a cui è ridotta la nostra civiltà: esser convinti che la protezione del nostro privilegio sia più importante della vita umana. A qualsiasi costo, “fora dai ball` e dentro al mare.

Sia chiaro una volta per tutte: se la nostra civiltà non sarà capace di liberarsi da questa condizione e di riscattare la sua dignità, non potrà che continuare a produrre poteri xenofobi e tragedie umane. E ora per favore, silenzio. Proviamo ad ascoltarlo. Cerchiamo almeno in questo silenzio la forza di ricominciare ad essere civili.




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